Come la Magna Carta è diventata una Minor Carta
di Noam Chomsky – 23 luglio 2012
Qualcosa è davvero cambiato dopo l’11 settembre (quando “tutto” si assumeva fosse cambiato) e in un discorso all’Università di St. Andrews in Scozia, riprodotto di seguito per intero, Noam Chomsky torna indietro di un paio di secoli per esporre una storia vivida proprio di come questo è accaduto.
Procedendo di solo poche generazioni arriveremo al millennio della Magna Carta, uno dei grandi avvenimenti della fondazione dei diritti civili e umani. Se sarà celebrato, pianto o ignorato, non è ancora chiaro.
Dovrebbe essere una questione di serio interesse immediato. Quel che facciamo, o non facciamo, ora determinerà quale tipo di mondo accoglierà quell’evento. Se le tendenze attuali persisteranno, non è una prospettiva attraente, non da ultimo perché la Grande Carta ci è stracciata davanti agli occhi.
di Noam Chomsky – 23 luglio 2012
Qualcosa è davvero cambiato dopo l’11 settembre (quando “tutto” si assumeva fosse cambiato) e in un discorso all’Università di St. Andrews in Scozia, riprodotto di seguito per intero, Noam Chomsky torna indietro di un paio di secoli per esporre una storia vivida proprio di come questo è accaduto.
Procedendo di solo poche generazioni arriveremo al millennio della Magna Carta, uno dei grandi avvenimenti della fondazione dei diritti civili e umani. Se sarà celebrato, pianto o ignorato, non è ancora chiaro.
Dovrebbe essere una questione di serio interesse immediato. Quel che facciamo, o non facciamo, ora determinerà quale tipo di mondo accoglierà quell’evento. Se le tendenze attuali persisteranno, non è una prospettiva attraente, non da ultimo perché la Grande Carta ci è stracciata davanti agli occhi.
La prima edizione colta della Magna Carta fu pubblicata dall’eminente giurista William Blackstone. Non fu un compito facile. Non erano disponibili buoni testi. Com’egli scrisse “il corpo della carta è stato sfortunatamente mangiato dai topi”, un commento che ha un sinistro simbolismo oggi, mentre ci assumiamo il compito che i topi hanno lasciato incompleto.
L’edizione Blackstone comprende in realtà due carte. Era intitolata La Grande Carta e la Carta della Foresta. La prima, la Carta delle Libertà, è diffusamente riconosciuta costituire il fondamento dei diritti basilari dei popoli anglofoni o, come disse in modo più enfatico Winston Churchill, “la carta di ogni uomo che si rispetti in ogni tempo e in ogni luogo”. Churchill si riferiva specificamente alla riaffermazione della Carta da parte del Parlamento nella Petizione dei Diritti, che implorava re Carlo di riconoscere che è la legge, non il re, ad essere sovrana. Carlo acconsentì laconicamente ma violò subito il suo impegno preparando il terreno per la sanguinosa Guerra Civile.
Dopo un aspro conflitto tra il re e il parlamento, fu ripristinato il potere della corona, nella persona di Carlo II. Sconfitta, la Magna Carta non fu dimenticata. Uno dei capi del parlamento, Henry Vane, fu decapitato. Sul patibolo egli cercò di leggere un discorso che denunciava la sentenza come una violazione della Magna Carta, ma fu sopraffatto dalle trombe per garantire che tali parole scandalose non fossero udite dalla folla plaudente. Il suo principale delitto fu di aver stilato una petizione che definiva il popolo “il potere originale, tra tutti,” nella società civile, non il re, neppure Dio. Quella fu la posizione fortemente sostenuta da Roger Williams, il fondatore della prima società libera in quello che oggi è lo stato di Rhode Island. Le sue idee eretiche influenzarono Milton e Locke, anche se Williams si spinse molto più in là, fondando la moderna dottrina della separazione tra chiesa e stato, tuttora molto contestata anche nelle democrazie liberali.
Come spesso accade, l’apparente sconfitta fece tuttavia avanzare la lotta per la libertà e i diritti. Poco tempo dopo l’esecuzione di Vane, re Carlo concesse uno statuto reale alle piantagioni del Rhode Island, dichiarando che “la forma di governo è democratica” e inoltre che il governo poteva affermare la libertà di coscienza per i papisti, gli atei, gli ebrei, i turchi … persino i quaccheri, una delle più temute e trattate brutalmente tra le molte sette che comparivano in quei giorni turbolenti. Tutto ciò era straordinario nel clima dell’epoca.
Alcuni anni dopo la Carta delle Libertà fu arricchita dalla legge del 1679 sull’Habeas Corpus, intitolata formalmente “una legge per garantire meglio la libertà del soggetto e per la prevenzione dell’incarcerazione all’estero.” La Costituzione statunitense, mutuando dalla common law inglese, afferma che “la norma dell’habeas corpus non sarà sospesa” eccetto in caso di rivolta o invasione. In una sentenza unanime la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che i diritti garantiti da tale legge erano “considerati dai Fondatori [della repubblica statunitense] come la più alta salvaguardia della libertà”. Tutte queste parole dovrebbero echeggiare oggi.
La Seconda Carta e i Beni Comuni [Commons]
Il significato della carta accompagnatrice, la Carta della Foresta, è non meno profondo e forse anche più pertinente oggi, come è stato esaminato in profondità da Peter Linebaugh nella sua storia riccamente documentata e stimolante della Magna Carta e della sua successiva traiettoria. La Carta della Foresta rivendicava la protezione dei beni comuni dai poteri esterni. I beni comuni erano la fonte di sostentamento della popolazione generale: combustibile, cibo, materiali da costruzione, tutto ciò che era essenziale per la vita. La foresta non era un primitivo luogo selvatico. Era stata attentamente sviluppata nel corso di generazioni, amministrata in comune, le sue ricchezze disponibili a tutti e preservata per le generazioni future, pratiche che oggi si ritrovano nelle società tradizionali che sono minacciate in tutto il mondo.
La Carta della Foresta imponeva limiti alla privatizzazione. I miti di Robin Hood colgono l’essenza dei suoi interessi (e non è troppo sorprendente che la popolare serie televisiva degli anni ’50, “Le avventure di Robin Hood”, sia stata scritta anonimamente da sceneggiatori di Hollywood inseriti nella lista nera per idee di sinistra). Nel diciassettesimo secolo, comunque, questa Carta era caduta vittima dell’ascesa dell’economia mercantile e delle pratiche e della morale capitalista.
Con i beni comuni non più protetti per la gestione e l’utilizzo cooperativo, i diritti della gente comune furono limitati a ciò che non poteva essere privatizzato, una categoria che continua a ridursi fino a diventare virtualmente invisibile. In Bolivia il tentativo di privatizzare l’acqua è stato alla fine battuto da una rivolta che ha portato al potere la maggioranza indigena per la prima volta nella storia. La Banca Mondiale ha appena stabilito che la multinazionale mineraria Pacific Rim può procedere con una causa contro El Salvador per il tentativo di questo stato di difendere le terre e le comunità da miniere d’oro altamente distruttive. I limiti ambientalisti minacciano di privare la società dei futuri profitti, un crimine che può essere punito in base alle regole del regime dei diritti degli investitori, mal etichettato come “libero scambio”. E questo è solo un minuscolo esempio delle lotte in corso in gran parte del mondo, alcune comportanti estrema violenza, come nel Congo Orientale, dove milioni sono stati uccisi in anni recenti per garantire una vasta fornitura di minerali per telefoni cellulari e altri utilizzi e, naturalmente, grandi profitti.
L’ascesa della pratica e della moralità capitaliste ha portato con sé una revisione radicale di come sono trattati i beni comuni e anche di come sono concepiti. La visione prevalente oggi è colta dalla tesi influente di Garratt Hardin che “la libertà nel caso di un bene comune porta rovina a tutti”, la famosa “tragedia dei beni comuni”: ciò che non è proprietà di qualcuno sarà distrutto dalla cupidigia individuale.
Un equivalente internazionale è stato il concetto di terra nullius, impiegato per giustificare l’espulsione delle popolazioni indigene nelle società coloniali d’insediamento nella sfera d’influenza inglese, o il loro “sterminio”, come i padri fondatori della repubblica statunitense descrivevano, a volte con rimorso dopo il fatto, quello che facevano. Secondo quest’utile dottrina gli indiani non avevano diritti di proprietà poiché erano soltanto dei nomadi in una landa selvatica incolta. E gli operosi coloni potevano creare valore dove non ce n’era passando quelle stesse terre selvatiche a un utilizzo commerciale.
In realtà i coloni la sapevano più lunga e ci furono elaborate procedure d’acquisto e di ratifica da parte della corona e del parlamento, successivamente annullate a forza quando le malvage creature si opposero allo sterminio. La dottrina è spesso attribuita a John Locke, ma la cosa è dubbia. Da amministratore coloniale egli sapeva cosa stava succedendo e non ci sono basi per l’attribuzione nei suoi scritti, come hanno dimostrato in modo convincente studiosi contemporanei, in particolare il lavoro dello studioso australiano Paul Corcoran. (E’ stato in Australia che la dottrina è stata impiegata nel modo più brutale).
Le fosche previsioni sulla tragedia dei beni comuni non sono incontrastate. La defunta Elinor Olstrom ha vinto il Premio Nobel per l’economia nel 2009 per la sua opera che dimostrava la superiorità dei banchi di pesca, dei pascoli, dei boschi, dei laghi e dei bacini idrici amministrati dagli utenti. Ma la dottrina convenzionale ha forza se accettiamo la sua premessa non dichiarata: che gli umani sono ciecamente guidati da quello che i lavoratori statunitensi, all’alba della rivoluzione industriale, chiamarono amaramente “il Nuovo Spirito dell’Epoca, Guadagnare Ricchezza scordandosi di tutto tranne che di Sé Stessi”.
Come i contadini e gli operai in Inghilterra prima di loro, i lavoratori statunitensi denunciarono questo Nuovo Spirito che era imposto loro, considerandolo umiliante e distruttivo, un assalto alla natura stessa degli uomini liberi e delle donne libere. E sottolineo ‘donne’; tra i più attivi e espliciti nel condannare la distruzione dei diritti e della dignità delle persone libere da parte del sistema industriale capitalista ci furono le “ragazze di fabbrica”, giovani donne provenienti dalle fattorie. Anche loro erano spinte nel regime del lavoro salariato controllato che era considerato all’epoca diverso dalla schiavitù soltanto perché era temporaneo. Quella posizione fu considerata così naturale che divenne uno slogan del Partito Repubblicano e una bandiera sotto la quale i lavoratori del nord presero le armi durante la guerra civile statunitense.
Controllo del desiderio di democrazia
Si tratta di 150 anni fa, in Inghilterra di prima ancora. Da allora sono stati dedicati enormi sforzi a inculcare il Nuovo Spirito dell’Epoca. Al compito sono dedite grandi industrie: propaganda, pubblicità, marketing in generale, tutte che contribuiscono come componente molto importante al Prodotto Interno Lordo. Sono dedite a quella che il grande economista politico Thorstein Veblen chiamò la “fabbrica dei bisogni”. Nelle parole degli stessi leader del mondo degli affari, il compito consiste nel dirigere la gente alle “cose superficiali della vita”, come i “consumi di moda”. In quel modo la gente può essere atomizzata, le persone separate le une dalle altre, alla ricerca del solo profitto personale, sviate da tentativi pericolosi di pensare con la propria testa e di sfidare l’autorità.
Il processo di modellare le opinioni, gli atteggiamenti e le percezioni fu chiamato l’“ingegneria del consenso” da uno dei fondatori della moderna industria delle pubbliche relazioni, Edward Bernays. Era un rispettato progressista della tradizione di Wilson, Roosevelt e Kennedy, in gran parte come il suo contemporaneo, il giornalista Walter Lippmann, il più eminente intellettuale pubblico degli Stati Uniti del ventesimo secolo, che lodava la “fabbrica del consenso” come una “nuova arte” nella pratica della democrazia.
Entrambi riconoscevano che il pubblico deve essere “messo al suo posto”, emarginato e controllato, nel suo interesse, ovviamente. La gente era troppo “stupida e ignorante” per poterle consentire di gestire i propri affari. Il compito doveva essere lasciato alla “minoranza intelligente” che doveva essere protetta “dalla marcia e dal ruggito del gregge confuso”, dagli “ignoranti e intriganti estranei”, dalla “moltitudine furfante”, come era chiamata dai loro predecessori del diciassettesimo secolo. Il ruolo della popolare in generale doveva essere di “spettatrice”, non di “protagonista dell’azione”, in una società democratica che funzionasse correttamente.
E agli spettatori non deve essere consentito di vedere troppo. Il presidente Obama ha fissato nuovi riferimenti per la salvaguardia di questo principio. Egli, in effetti, ha punito molte più fonti interne di tutti i presidenti precedenti messi insieme, un vero successo per un’amministrazione salita al potere promettendo trasparenza. WikiLeaks, con la collaborazione inglese, è solo il caso più famoso.
Tra gli altri argomenti che non sono affare dell’orda selvaggia sono gli affari esteri. Chiunque abbia studiato documenti desegretati avrà scoperto che, in larga misura, la loro segretazione era mirata a proteggere i dirigenti pubblici dal controllo del pubblico. All’interno, la marmaglia non deve conoscere il consiglio dato dai tribunali alle principali imprese: che esse devono dedicarsi ad alcuni sforzi molto visibili di opere buone in modo che un “pubblico eccitato” non scopra gli enormi vantaggi offerti loro dallo stato badante. Più in generale il pubblico statunitense non dovrebbe apprendere che “le politiche statali sono prevalentemente regressive, rafforzando ed ampliando così le diseguaglianze sociali”, anche se progettate in modo tale da indirizzare “la gente a pensare che il governo aiuta solo i poveri immeritevoli, consentendo ai politici di mettere in moto e sfruttare la retorica e i valori antigovernativi anche se il governo continua a incanalare sostegno ai propri lettori più abbienti”. Sto citando dalla principale rivista dell’establishment, Foreign Affairs, non da qualche fogliaccio radicale.
Col passar del tempo e con le società che divenivano più libere e il ricorso dello stato alla violenza era più limitato, è solo cresciuta l’urgenza di inventare metodi sofisticati per controllare gli atteggiamenti e le opinioni. E’ naturale che l’immensa industria delle pubbliche relazioni debba essere stata creata nelle società più libere, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. La prima agenzia moderna di propaganda è stata il Ministero dell’Informazione inglese, un secolo fa, che segretamente definì il suo compite come “dirigere il pensiero della maggior parte del mondo”, principalmente gli intellettuali progressisti statunitensi, che dovevano essere mobilitati a venire in aiuto della Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale.
Il suo omologo statunitense, il Comitato della Pubblica Informazione, fu creato da Woodrow Wilson per indirizzare una popolazione pacifista a un odio violento di tutto ciò che era tedesco. Con notevole successo. La pubblicità commerciale statunitense impressionò profondamente altri. Goebbels la ammirava e la adattò alla propaganda nazista, con sin troppo successo. I leader bolscevichi tentarono anche loro, ma i loro sforzi furono goffi e inefficaci.
Un compito interno fondamentale è sempre consistito nel “tener lontano [il pubblico] dalle nostre gole”, come il saggista Ralph Waldo Emerson descrisse le preoccupazioni dei leader politici quando la minaccia della democrazia si stava facendo più difficile da sopprimere a metà del diciannovesimo secolo. Più di recente l’attivismo degli anni ’60 suscitò le preoccupazioni delle élite a proposito dell’”eccesso di democrazia” e l’appello a misure per imporre “maggior moderazione” alla democrazia.
Una preoccupazione particolare fu quella di introdurre controlli migliori sulle istituzioni “responsabili dell’indottrinamento dei giovani”: le scuole, le università, le chiese, che erano considerate manchevoli quanto al loro compito essenziale. Cito reazioni dal versante liberale di sinistra dello spettro convenzionale, gli internazionalisti liberali che successivamente furono i collaboratori dell’amministrazione Carter e i loro omologhi nelle società industriali. La destra era molto più dura. Una delle molte manifestazioni di quest’urgenza è stata il forte aumento delle tasse universitarie, non per motivi economici, com’è dimostrato facilmente. Il meccanismo intrappola comunque e controlla efficacemente i giovani in forza dell’indebitamento, spesso per il resto delle loro vite, contribuendo così a un indottrinamento più efficace.
Gli “umani per tre quinti”
Occupandoci ulteriormente di questi importanti argomenti, costatiamo che la distruzione della Carta della Foresta e la sua cancellazione dalla memoria si collega piuttosto strettamente con i continui tentativi di inibire la promessa della Carta delle Libertà. Il “Nuovo Spirito dell’Epoca” non può tollerare la concezione pre-capitalista della Foresta come dotazione condivisa della comunità in senso ampio, di cui si ha cura in comune per il proprio uso e per le generazioni future, protetta dalla privatizzazione, dal trasferimento nelle mani di proprietari privati al servizio della ricchezza, non dei bisogni. Inculcare il Nuovo Spirito è un prerequisito essenziale per conseguire questo fine e per evitare che la Carta delle Libertà sia male utilizzata per mettere i liberi cittadini in grado di decidere il proprio destino.
Alle lotte popolari per realizzare una società più libera e più giusta è stata opposta la violenza e la repressione e grandi sforzi di controllare le opinioni e gli atteggiamenti. Col tempo, tuttavia, esse hanno conseguito considerevoli successi, anche se c’è una lunga via da percorrere e ci sono spesso regressi. Proprio ora, in effetti.
La parte più famosa della Carta delle Libertà è l’articolo 39, che stabilisce che “nessun uomo libero” sarà punito in alcun modo “né procederemo contro di lui o lo perseguiremo se non mediante un giudizio legale dei suoi pari e secondo le leggi del paese.”
Dopo molti anni di lotta il principio è arrivato ad avere una portata più ampia. La Costituzione statunitense prevede che nessuna “persona [sarà] privata della vita, della libertà o della proprietà, senza una giusta procedura legale [e] un rapido e pubblico processo” da parte dei suoi pari. Il principio fondamentale è la “presunzione d’innocenza”, quello che gli storici giuridici descrivono come “il seme della libertà contemporanea anglo-statunitense”, riferendosi all’articolo 39; e con il tribunale di Norimberga in mente, un “particolare genere di legalismo statunitense: la punizione solo per coloro di cui si possa provare la colpa mediante un equo processo con vasto assortimento di garanzie procedurali”, anche se la colpa per alcuni dei peggiori crimini della storia è indubbia.
I fondatori naturalmente non intendevano che il termine “persona” si applicasse a tutti. I nativi americani non erano persone. I loro diritti erano virtualmente zero. Le donne erano persone a stento. Le mogli erano considerate “coperte” dall’identità civile dei loro mariti in gran parte allo stesso modo in cui i figli erano soggetti ai loro genitori. I principi di Blackstone affermavano che “la stessa esistenza o esistenza legale della donna è sospesa durante il matrimonio, o almeno è incorporata e consolidata in quella del marito, sotto la cui ala, protezione e copertura lei fa ogni cosa.” Le donne sono, così, proprietà dei loro padri e dei loro mariti. Questi principi sono rimasti sino ad anni recenti. Fino a una sentenza del 1975 della Corte Suprema, le donne non avevano neppure il diritto legale di essere membri di giuria. Non erano pari. Soltanto due settimane fa l’opposizione Repubblicana ha bloccato la legge sulla Remunerazione Equa che garantisce alle donne una paga uguale per un lavoro uguale. E la cosa va ben oltre.
Gli schiavi, naturalmente, non erano persone. In effetti essi erano umani per tre quinti secondo la Costituzione, in modo da garantire ai loro proprietari un maggior potere di voto. La protezione della schiavitù non fu una preoccupazione da poco per i fondatori: fu uno dei fattori che portò alla rivoluzione statunitense. Nel caso Somerset, del 1772, Lord Mansfield decise che la schiavitù è così “odiosa” che non può essere tollerata in Inghilterra, anche se continuò per molti anni nei possedimenti britannici. I proprietari di schiavi statunitensi potevano vedere l’imminenza della condanna se le colonie fossero rimaste sotto il dominio inglese. E va ricordato che gli stati schiavisti, Virginia compresa, avevano il maggior potere e la maggior influenza sulle colonie. E’ facile apprezzare la battuta del Dottor Johnson secondo la quale “sentiamo gli strilli più forti per la libertà tra i padroni di negri.”
Gli emendamenti successivi alla guerra civile estesero il concetto di persona agli afro-americani, ponendo fine alla schiavitù. Almeno in teoria. Dopo circa un decennio di relativa libertà, fu reintrodotta una condizione simile alla schiavitù da un accordo nord-sud che permetteva l’efficace criminalizzazione della vita dei neri. Un maschio nero che se ne stava all’angolo di una strada poteva essere arrestato per vagabondaggio, o per tentato stupro se guardava una bianca nel modo sbagliato. E una volta in galera aveva poche possibilità di sfuggire al sistema della “schiavitù sotto altro nome”, l’espressione utilizzata dall’allora capo del Wall Street Journal, Douglas Blackmon, in uno studio interessante.
Questa nuova versione dell’”istituzione peculiare” fornì gran parte della base per la rivoluzione industriale statunitense, con una forza lavoro perfetta per l’industria siderurgica e mineraria, assieme alla produzione industriale con le famose bande in catene: docili, obbedienti, niente scioperi e nessuna necessità per i datori di lavoro neppure di alimentare i propri lavoratori, un miglioramento rispetto alla schiavitù. Il sistema, in larga parte, durò sino alla seconda guerra mondiale, quando fu necessario lavoro di uomini liberi per la produzione bellica.
Il boom postbellico offrì occupazione. Un nero poteva ottenere un posto in una fabbrica automobilistica sindacalizzata, guadagnare un salario onesto, comprare casa e forse mandare i figli all’università. Ciò durò per circa vent’anni, fino agli anni ’70, quando l’economia fu radicalmente riprogettata in base ai nuovi principi neoliberali dominanti, con una rapida crescita della finanziarizzazione e della delocalizzazione della produzione. La popolazione nera, ora largamente superflua, è stata criminalizzata di nuovo.
Fino alla presidenza di Ronald Reagan, le incarcerazioni negli USA erano entro le percentuali delle società industriali. Ma ora sono ben oltre gli altri paesi. Prendono di mira principalmente maschi neri, sempre più donne anche donne nere e ispanici, in gran parte colpevoli di crimini senza vittime nell’ambito delle fraudolente “guerre alla droga”. Nel frattempo, la ricchezza delle famiglie afro-americane è stata virtualmente cancellata dall’ultima crisi finanziaria, in non piccola misura grazie al comportamento criminale delle istituzioni finanziarie, con l’impunità degli autori, ora più ricchi che mai.
Ripercorrendo la storia degli afro-americani dal primo arrivo di schiavi quasi 500 anni al presente, essi hanno goduto dello status di persone autentiche solo per pochi decenni. C’è un lungo cammino da percorrere per realizzare la promessa della Magna Carta.
Persone sacre e cancellazione del processo
Il quattordicesimo emendamento dopo la guerra civile garantiva i diritti delle persone agli ex schiavi, anche se prevalentemente in teoria. Al tempo stesso creava una nuova categoria di persone titolari di diritti: le imprese. Di fatto quasi tutte le cause portate in tribunale in base al quattordicesimo emendamento hanno avuto a che fare con i diritti delle imprese e, da un secolo a questa parte, hanno stabilito che queste finzioni legali collettive, create e sostenute dal potere dello stato, avevano i pieni diritti delle persone in carne e ossa; in realtà diritti molto maggiori, grazie alla loro dimensione, immortalità e alla protezione della responsabilità limitata. I loro diritti ormai trascendono di gran lunga quelli dei semplici esseri umani. In base agli “accordi di libero scambio”, la Pacific Rim può, ad esempio, far causa a El Salvador perché lo stato cerca di proteggere l’ambiente; gli individui non possono fare lo stesso. La General Motors può reclamare diritti nazionali in Messico. Non c’è bisogno di diffondersi su quel che succederebbe se un messicano pretendesse diritti nazionali negli Stati Uniti.
A livello nazionale la recente sentenza della Corte Suprema ha fortemente accresciuto il potere politico già enorme delle imprese e dei super-ricchi, sparando altri colpi contro le vacillanti vestigia della democrazia politica funzionante.
Nel frattempo la Magna Carta è sotto un assalto più diretto. Si ricordi la legge sull’Habeas Corpus del 1679 che vietava l’”incarcerazione all’estero” e certamente le molto più malvage procedure di imprigionamento all’estero a fini di tortura, quelle che ora sono più garbatamente chiamate “consegne”, come quando Tony Blair consegnò il dissidente libico Abdel Hakim Belhaj, ora leader della ribellione, alla mercé di Gheddafi; o quando le autorità statunitensi deportarono il cittadino canadese Maher Arar nella sua natia Siria, per essere imprigionato e torturato, ammettendo soltanto dopo che non c’era alcuna causa contro di lui. E molti altri, spesso attraverso l’aeroporto di Shannon, portando a coraggiose proteste in Irlanda.
La nozione di giusto processo è stata ampliata nell’ambito della campagna internazionale di omicidi dell’amministrazione Obama in un modo che rende vuoto e inefficace questo elemento centrale della Carta delle Libertà (e la Costituzione). Il Dipartimento della Giustizia ha spiegato che la garanzia costituzionale del giusto processo, che risale alla Magna Carta, è ora soddisfatta da decisioni interne del loro ramo esecutivo. L’esperto costituzionalista della Casa Bianca si è dichiarato d’accordo. Re Giovanni avrebbe potuto annuire soddisfatto.
Il problema è sorto dopo l’assassinio mediante droni, ordinato dal presidente, di Anwar al-Awlaki, accusato di incitare la jihad con discorsi, scritti e azioni non specificate. Un titolo del New York Times ha colto la reazione generale dell’élite quando è stato ucciso, con i consueti danni collaterali, in un attacco di droni. Diceva: “L’occidente festeggia la morte di un ecclesiastico”. Alcune sopracciglia si sono inarcate, tuttavia, perché era un cittadino statunitense, il che ha fatto sorgere domande a proposito del giusto processo, considerate irrilevanti quando sono uccisi non cittadini secondo i capricci del capo supremo. E irrilevanti anche per i cittadini in base alle innovazioni legali del giusto processo sotto l’amministrazione Obama.
Anche alla presunzione d’innocenza è stata data una nuova e comoda interpretazione. Come ha riferito il New York Times: “Mr Obama ha abbracciato un metodo discusso per contare le vittime civile che ha fatto poco per metterlo in imbarazzo. Esso, in effetti, conta tutti i maschi in età di servizio militare in zona d’attacco come combattenti, secondo numerosi dirigenti dell’amministrazione, a meno che non ci siano esplicite informazioni postume dei servizi che ne dimostrino l’innocenza.” Dunque lo stabilire l’innocenza dopo l’assassinio, preserva il sacro principio della presunzione d’innocenza.
Sarebbe sgarbato ricordare le Convenzioni di Ginevra, fondamento della legge umanitaria moderna: esse vietano “l’attuazione di esecuzioni senza previa sentenza pronunciata da un tribunale regolarmente costituito, che offra tutte le garanzie legali riconosciute come indispensabili dai popoli civilizzati.”
Il caso recente più famoso di assassinio dell’esecutivo è stato Obama bin Laden, assassinato dopo essere stato catturato da 79 militari dei Navy Seals, indifeso, in compagnia soltanto di sua moglie, il suo corpo, a quanto riferito, gettato in mare senza autopsia. Qualsiasi cosa si pensi di lui, era un sospetto e niente più di questo. Persino lo FBI era d’accordo.
I festeggiamenti in questo caso sono stati entusiasti, ma c’erano alcune domande sollevate a proposito del distaccato rifiuto del principio della presunzione d’innocenza, particolarmente quando il processo era lungi dall’essere impossibile. Le domande sono state accolte con aspre condanne. La più interessante è stata quella di un rispettato commentatore politico della sinistra liberale, Matthew Yglesias, che ha spiegato che “una delle principali funzioni dell’ordine istituzionale internazionale consiste precisamente nel legittimare l’uso della forza militare mortale da parte delle potenze occidentali”, perciò è “sorprendentemente ingenuo” suggerire che gli Stati Uniti debbano attenersi alla legge internazionale o ad altre condizioni che giustamente pretendiamo siano rispettate dai più deboli.
Si possono opporre solo obiezioni tattiche alle aggressioni, agli assassinii, alla guerra cibernetica, o ad altre azioni che lo Stato Santo intraprende al servizio dell’umanità. Se le vittime tradizionali vedono le cose in modo un po’ diverso, ciò semplicemente rivela la loro arretratezza morale e intellettuale. E l’occasionale critico occidentale che non comprende queste verità fondamentali può essere scaricato come “stupido”, spiega Yglesias, riferendosi, incidentalmente, a me ed io confesso con gioia la mia colpa.
Lista governativa dei terroristi
L’assalto forse più impressionante alle fondamenta della libertà tradizionali è un caso poco noto portato alla Corte Suprema dall’amministrazione Obama, Holder contro il Progetto di Legge Umanitaria. Il progetto era condannato perché forniva “assistenza materiale” all’organizzazione guerrigliera del PKK, che si batte da molti anni per i diritti dei curdi ed è elencata come gruppo terroristico dall’esecutivo statale. L’”assistenza materiale” era costituita dalla consulenza legale. La formulazione della sentenza sembra applicarsi molto ampiamente, ad esempio, a discussioni e domande a fini di ricerca, persino a consigli al PKK di limitarsi a mezzi non violenti. Di nuovo, c’è stata una frangia marginale di critica, ma anch’essa ha accettato senza appello la legittimità della lista statale dei terroristi, le decisioni arbitrarie dell’esecutivo.
La storia della lista dei terroristi è di un certo interesse. Ad esempio, nel 1988 l’amministrazione Reagan dichiarò che il Congresso Nazionale Africano di Nelson Mandela era uno dei “più famigerati gruppi terroristici” del mondo, e così Reagan poté continuare ad appoggiare il regime dell’apartheid e i suoi saccheggi omicidi in Sudafrica e nei paesi vicini, come parte della sua “guerra al terrore”. Vent’anni dopo Mandela è stato finalmente cancellato dalla lista dei terroristi e può ora recarsi negli Stati Uniti senza una deroga speciale.
Un altro caso interessante è Saddam Hussein, cancellato dalla lista dei terroristi nel 1982 in modo che l’amministrazione Reagan potesse fornirgli appoggio per l’invasione dell’Iran. Il sostegno proseguì ben oltre la fine della guerra. Nel 1989 il presidente Bush invitò persino ingegneri nucleari iracheni negli Stati Uniti per un addestramento avanzato alla produzione di armi; altre informazioni che vanno tenute lontano dagli occhi degli “ignoranti e intriganti estranei”.
Uno degli esempi più brutti di uso della lista dei terroristi ha a che fare con le persone torturate in Somalia. Immediatamente dopo l’11 settembre gli Stati Uniti chiusero la rete di beneficenza somala Al-Barakaat perché finanziava il terrorismo. Questo risultato fu salutato come uno dei grandi successi nella “guerra al terrore”. Per contro il ritiro da parte di Washington, un anno dopo, delle sue accuse perchè prive di fondamento fece poca notizia.
Al-Barakaat era responsabile di circa metà dei 500 milioni di dollari di rimesse in Somalia, “più di quanto [il paese] ricavi da qualsiasi altro settore economico e dieci volte l’importo degli aiuti stranieri che riceve,” ha stabilito un esame dell’ONU. L’ente di beneficenza gestiva anche grandi attività imprenditoriali in Somalia, tutte distrutte. L’eminente studioso accademico della “guerra finanziaria al terrore” di Bush, Ibrahim Warde, conclude che, a parte le devastazioni all’economia, questo attacco stupido a una società molto fragile “può aver svolto un ruolo nell’ascesa … dei fondamentalisti islamici”, un’altra conseguenza familiare della “guerra al terrore”.
L’idea stessa che lo stato debba avere l’autorità di operare tali giudizi è una grave offesa alla Carta delle Libertà, così come lo è il fatto che essa sia incontestabile. Se la caduta in disgrazia della Carta continua sulla via degli ultimi anni, il futuro dei diritti e delle libertà appare tetro.
Chi riderà per ultimo?
Alcune parole finali sul destino della Carta della Foresta. Il suo obiettivo era di proteggere la fonte di sostentamento della popolazione, i beni comune, dal potere esterno, cioè, nei primi tempo, dalla corona; nel corso degli anni appropriazioni e altre forme di privatizzazione da parte d’imprese predatrici e delle autorità dello stato che collaborano con esse hanno soltanto premuto sull’acceleratore e sono state appropriatamente ricompensate. Il danno è molto vasto.
Se ascoltiamo oggi le voci del Sud possiamo apprendere che “la conversione di beni pubblici in proprietà privata attraverso la privatizzazione del nostro ambiente naturale, altrimenti detenuto in comune, è uno dei modi in cui le istituzioni neoliberali rimuovono le fragili orditure che tengono insieme le nazioni africane. La politica oggi è stata ridotta a un’avventura lucrosa in cui si guarda principalmente ai ritorni sugli investimenti piuttosto che a come si può contribuire a ricostruire ambienti, comunità e nazioni altamente degradate. Questo è uno dei benefici che i programmi di aggiustamento strutturale hanno inflitto al continente: l’incoronazione della corruzione.” Sto citando il poeta e attivista nigeriano Nnimmo Bassey, presidente dell’Internazionale Amici della Terra, nella sua feroce denuncia del saccheggio della ricchezza dell’Africa, ‘To Cook a Continent’ [Cucinare un continente], la fase più recente della tortura occidentale dell’Africa.
Tortura che è sempre stata pianificata ai livelli più alti, andrebbe riconosciuto. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti detenevano una posizione di potere globale senza precedenti. Non sorprendentemente, furono sviluppati piani accurati e sofisticati su come organizzare il mondo. Ad ogni regione fu assegnata, dai pianificatori del Dipartimento di Stato guidati dall’illustre diplomatico George Kennan, la sua “funzione”. Egli decise che gli Stati Uniti non avevano interessi particolari in Africa, perciò essa andata consegnata all’Europa per lo “sfruttamento” – termine suo – della sua ricostruzione. Alla luce della storia ci si sarebbe potuti immaginare una relazione diversa tra Europa e Africa, ma non c’è alcuna indicazione che ciò sia mai stato preso in considerazione.
Più di recente gli Stati Uniti hanno riconosciuto di doversi anch’essi unire alla partita dello sfruttamento dell’Africa, assieme a nuovi ingressi, come la Cina, che è indaffarata all’opera nella compilazione di uno dei peggiori repertori di distruzione dell’ambiente e di oppressione delle sventurate vittime.
Sarebbe necessario diffondersi sui pericoli estremi posti da un elemento centrale delle ossessioni predatrici che stanno producendo calamità in tutto il mondo: la dipendenza dai combustibili fossili, che corteggia il disastro globale, forse in un futuro non troppo distante. Sui dettagli si può discutere ma ci sono pochi dubbi seri che i problemi siano gravi, se non terrificanti, e che quanto più aspettiamo ad affrontarli, tanto più orribile sarà l’eredità che lasceremo alle generazioni a venire. Ci sono alcuni tentativi di guardare in faccia la realtà, ma sono di gran lunga troppo minimali. La recente Conferenza di Rio+20 si è aperta con aspirazioni misere e risultati irrisori.
Nel frattempo le concentrazioni di potere stanno caricando nella direzione opposta, guidate dal paese più ricco e più potente della storia mondiale. I Repubblicani al Congresso stanno smantellando le limitate protezioni dell’ambiente avviate da Richard Nixon, che sulla scena politica odierna apparirebbe come un pericoloso radicale. Le principali lobby affaristiche annunciano apertamente le loro campagne di propaganda per convincere il pubblico che non c’è bisogno d’inutili preoccupazioni; con qualche efficacia, come mostrano i sondaggi.
I media collaborano, non riferendo nemmeno le sempre più fosche previsioni delle agenzie internazionali e dello stesso Dipartimento dell’Energia statunitense. La presentazione standard è un dibattito tra allarmisti e scettici: da un alto virtualmente quasi tutti scienziati qualificati, dall’altro alcuni contrari. Non partecipano in gran numero al dibattito gli esperti, compreso il programma sul cambiamento climatico del MIT, tra gli altri, che criticano l’opinione scientifica generale perché è troppo conservatrice e cauta, sostenendo che la verità, quando si tratta del cambiamento climatico, è di gran lunga più sinistra. Non sorprende che il pubblico sia confuso.
Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, a gennaio, il presidente Obama ha salutato la brillante prospettiva di un secolo di autosufficienza energetica, grazie a nuove tecnologie che permettono l’estrazione degli idrocarburi dalle sabbie bituminose canadesi, dagli scisti e da altre fonti in precedenza inaccessibili. Altri concordano. Il Financial Times prevede un secolo di indipendenza energetica per gli Stati Uniti. L’articolo non cita l’impatto locale distruttivo dei nuovi metodi. Non posta, in queste previsioni ottimiste, è la domanda su quale tipo di mondo sopravvivrà all’offensiva rapace.
All’avanguardia nell’affrontare la crisi in tutto il mondo sono le comunità indigene, quelle che hanno sempre preservato la Carta delle Foreste. La posizione più forte è stata presa dall’unico paese che governano, la Bolivia, il paese più povero dell’America del Sud e per secoli vittima della distruzione occidentale delle ricche risorse di una delle più avanzate tra le società sviluppate dell’emisfero prima di Colombo.
Dopo l’ignominioso tracollo del vertice sul cambiamento climatico globale del 2009 a Copenhagen, la Bolivia ha organizzato un Vertice dei Popoli, con 35.000 partecipanti da 140 nazioni, non soltanto rappresentanti dei governi ma anche della società civile e attivisti. Ha prodotto una Accordo dei Popoli che sollecita una riduzione molto forte delle emissioni e una Dichiarazione Universale dei Diritti di Madre Terra. Si tratta di una rivendicazione chiave delle comunità indigene di tutto il mondo. E’ ridicolizzata dai raffinati occidentali, ma salvo che noi acquisiamo parte della loro sensibilità, probabilmente saranno loro a ridere per ultimi; una risata di sinistra disperazione.
Noam Chomsky è professore emerito al Dipartimento di Linguistica e Filosofia del MIT. Scrive regolarmente per TomDispatch, è autore di numerose opere best-seller; più di recente “Speranze e Prospettive – Costruire il futuro” è “Occupy”. Questo è il testo completo di un discorso da lui tenuto recentemente all’Università di St. Andrews, in Scozia. Il suo sito web è www.chomsky.info. Per l’intervista audio in cui Chomsky discute della distruzione dei principi della Magna Carta, cliccare qui oppure scaricarla sull’iPod qui.
Questo articolo è comparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhard, da lungo tempo direttore editoriale, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo ‘The Last Days of Publishing’[Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s’ (Haymarket Books) [Lo stile bellico statunitense: come le guerre di Bush sono diventate di Obama].
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/destroying-the-commons-by-noam-chomsky
Originale: TomDispatch.com
visto su comedonchisciotte.org e copiato e postato su questo blog
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