Nelle afose e torpide domeniche d’estate càpita
di rimuginare su se stessi. E così come si fa sulla propria vita, si può
farlo su un pezzo di storia della propria città. La vicenda della base
Usa al Dal Molin è ormai un capitolo chiuso. Possiamo fare i conti con
essa col dovuto distacco.
Se dovessi riassumere in una battuta la Dal Molin story, sarebbe questa: come svendere un pezzo di Paese agli Americani e vivere cornuti, mazziati e felici. Si può compensare o ridurre il danno rappresentato dalla più grande base militare statunitense in Europa al posto di una pista aerea, tolta d’imperio alla città, da uno Stato che si priva di un’area di sua proprietà pur di obbedire ai desiderata di una potenza straniera? Per un cittadino che non voglia rassegnarsi alla condizione di suddito, la risposta non può essere che no. La nuova caserma a stelle e strisce era e resta un clamoroso abuso. Anzitutto, di sovranità nazionale: l’Italia, governata indifferentemente dalla destra o dalla sinistra, ha concesso una porzione di territorio a Washington che vi installa truppe e armamenti usati per guerre americane (Irak, Afghanistan).
In secondo luogo, di sovranità locale, perché Roma non ha
riconosciuto alcun diritto di autodeterminazione alla popolazione
vicentina negandole finanche una semplice consultazione (avvenuta
comunque in modo autogestito, senza valore legale), e questo in base a
un’inesistente natura di “difesa nazionale” attribuita a un insediamento
interamente extraterritoriale. Infine, è stato uno stupro di democrazia
– la tanto decantata democrazia – perché a vent’anni dalla fine della
Guerra Fredda, il trattato bilaterale del 1955 che ha dato legittimità
formale al via libera italiano è coperto da un anacronistico segreto che
ha reso impossibile qualsiasi trasparenza sui lavori, sulle conseguenze
ambientali, su eventuali dotazioni belliche, e che soprattutto nega
agli italiani tutti di poter rifiutare, se lo volessero, genuflessioni
così umilianti.
Se dovessi riassumere in una battuta la Dal Molin story, sarebbe questa: come svendere un pezzo di Paese agli Americani e vivere cornuti, mazziati e felici. Si può compensare o ridurre il danno rappresentato dalla più grande base militare statunitense in Europa al posto di una pista aerea, tolta d’imperio alla città, da uno Stato che si priva di un’area di sua proprietà pur di obbedire ai desiderata di una potenza straniera? Per un cittadino che non voglia rassegnarsi alla condizione di suddito, la risposta non può essere che no. La nuova caserma a stelle e strisce era e resta un clamoroso abuso. Anzitutto, di sovranità nazionale: l’Italia, governata indifferentemente dalla destra o dalla sinistra, ha concesso una porzione di territorio a Washington che vi installa truppe e armamenti usati per guerre americane (Irak, Afghanistan).
La politichetta locale, chiaramente, ci ha messo del suo. Il sindaco Achille Variati (Pd) ha ottenuto un magro piatto di lenticchie: 10,5 milioni di euro per la bonifica del terreno rimasto libero per farsi il suo amato Parco della Pace accanto alla base (foglia di fico, ahimè, della sconfitta del movimento No Dal Molin, anche se sempre meglio di ulteriori cementificazioni lobbistiche), e l’impegno a finanziare la tangenziale nord che dovrà collegare la già esistente base americana, Camp Ederle, alla nuova. Tutto qui? Tutto qui. Il parco che sorgerà lì vicino resterà di proprietà del demanio militare e lo Stato potrà riprenderselo quando vuole (magari per ampliare ancora la caserma se mai un bel giorno il Pentagono, padrone a casa nostra, lo reclamasse). Per soprammercato, i costi della manutenzione della futura zona verde saranno a carico del Comune, cioè dei vicentini. Un minimo senso di responsabilità imporrebbe che l’area lasciata libera dal diktat statunitense fosse stata trasferita al patrimonio comunale come risarcimento quanto meno simbolico alla calpestata Vicenza, e poi che i soldi per la tangenziale e per le altre opere di sostenibilità urbanistica fossero stati garantiti dagli Americani. Ma c’è il fatto che gli Stati Uniti non sborsano un dollaro per nulla al di fuori del perimetro delle loro basi.
Eppure non è scritto da nessuna parte che, pur essendo alleati nella Nato, occorra per forza calarsi le braghe. Nel giugno 2010 in Giappone il primo ministro, il democratico Yukio Hatoyama, si è dimesso con la coda fra le gambe per aver ingannato la popolazione dell’arcipelago di Okinawa. In campagna elettorale, il bellimbusto aveva solennemente giurato di trasferire fuori dall’isola omonima la base militare statunitense, la più grande fra le 91 strutture americane presenti nel paese. Nonostante costituisca solo lo 0,06% del territorio giapponese, il 10,7% della sua superficie totale di 2.266 chilometri quadrati è occupato da basi militari statunitensi, con circa 23 mila soldati di stanza a cui si aggiungo i civili. Da tempo gli abitanti sono in rivolta contro il governo di Tokio per, quantomeno, ridimensionare l’invadenza americana. A un certo punto i giapponesi hanno detto basta, costringendo il capo del governo a fare le valigie. C’erano senz’altro altre cause che hanno concorso alla sua caduta, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’indignazione per vedersi espropriati del basilare diritto a disporre della propria terra.
Nel febbraio 2007, l’estrema sinistra inscenò l’adesione alla marcia di Vicenza contro il Dal Molin Usa ma si guardò bene dall’agire con coerenza affossando il governo Prodi, di cui faceva parte, che aveva dato il suo benestare in conferenza stampa a Bucarest, il famoso “editto rumeno”. La situazione che ha generato la sollevazione dei vicentini è più o meno la stessa di Okinawa. Ma in Giappone, per quanto la sconfitta dell’ultima guerra lo abbia reso una colonia militare americana in misura maggiore rispetto al nostro paese, la dignità di uno Stato sovrano e la parola data hanno ancora un valore. Nell’Italietta della destra venduta e della sinistra ipocrita, tutto finisce sempre a tarallucci e vino. Ha scritto un lucido liberal-conservatore, Sergio Romano: «credo che vi siano beni, nella vita di un Paese, che non possono essere misurati con il metro del denaro» (Corriere della Sera, 16 ottobre 2006).
Alessio Mannino
Fonte: www.nuovavicenza.it
Link: http://www.nuovavicenza.it/2012/07/dal-molin-story-i-conti-con-il-passato/
29.07.2012
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