La scritta che vedete qui riprodotta in bacheca ha decisamente un sapore
rètro. E’, infatti, datata 28 aprile del 1968, quando apparve per la
prima volta in pubblico a Parigi..
Il suo glamour vintage ha però una forte valenza simbolica, giustamente
ignorata da chiunque abbia meno di 50 anni, se non per il fatto di
averlo saputo da qualcuno.
Sociologi e antropologi sono d’accordo nell’averla identificata come il
“nucleo originatore della cultura pop europea del movimento di protesta
del ‘68”. Intraducibile.
Tant’è vero che nessuno ha mai osato neppure provarci.
La traduzione letterale sarebbe “non è che l’inizio, continuiamo a combattere”.
Basterebbe
questo per spiegare e giustificare il ruolo protagonista che la
Francia, come nazione e soprattutto come Cultura, ha avuto nella
formazione, contagio e propagazione, della simbolica necessaria per
costruire l’immaginario collettivo delle giovani generazioni. Questa
frase è il simbolo del pop europeo.
Non è nata come “moda da seguire” proveniente, ad ovest, dagli Usa, o ad
est dalle rivolte studentesche di quella che allora veniva chiamata la
”primavera di Praga”. Fu un mantra originale che si trasformò presto in
una febbre e divenne lo slogan propulsore che diede avvio alle rivolte
che cambiarono la faccia del sistema allora vigente.
Dietro questa frase c’era una classe intellettuale di pensatori superbi,
impeccabili dal punto di vista etico-morale individuale, qualunque
fosse la loro origine ideologica. Se c’erano delle contestazioni da fare
– e ce ne furono allora a tonnellate- erano sempre comunque relative
alle loro posizioni, applauditissime (alcune) detestate (altre). E la
Francia diventò, di nuovo, 186 anni dopo la rivoluzione, il punto di
riferimento di ogni ribellione europea. Anche la Spagna è sempre stata
in Europa un punto di riferimento culturale e politico essenziale nella
formazione dei necessari nuclei culturali di rivolta collettiva.. Ma
allora (purtroppo per loro e per tutti noi) fu costretta al silenzio e
all’isolamento perché viveva sotto la grigia e ferrea censura della
dittatura franchista di stampo fascista; un regime al potere dal 1938
che proprio nel 1968 represse immediatamente, nel sangue e con il
sangue, qualsivoglia possibilità anche remota di far partecipare il
popolo spagnolo alla nuova epica europea.
L’Italia, come al solito, arrivò per ultima. Noi italiani, nei secoli,
abbiamo assunto il ruolo dei “comodi pedinatori” delle mode, per scelta
di convenienza. Tutto ciò che è accaduto di originale in Europa, in
Italia è arrivato sempre con grave ritardo e quindi l’onda d’urto, per
forza di cose, è arrivata affievolita. Con un’unica eccezione negli
ultimi 300 anni: il fascismo.
Il fascismo è stato l’unico, il primo e l’ultimo, autentico movimento
originale politico culturale che abbia permeato la nazione. Tutti i
fascismi europei, da quello di Hitler in Germania a quello di Franco in
Spagna e Salazar in Portogallo, sono nati come figli del fascismo
italiano: il primo a irrompere sullo scenario della Storia. Ed è finita
come sappiamo. Esaurita la sua carica, il fascismo avrebbe potuto essere
per gli italiani “il primo” modello di rivolta e stravolgimento
politico originale, che, in seguito, nei decenni a venire, avrebbe
potuto e dovuto –una volta alchemizzato- consentire la gestazione di
altri movimenti culturali di pretta originalità italiana che nascevano
come evoluzione progressista delle istanze originali del fascismo.
Invece non è accaduto. Dal 1946 in poi, si è abbattuta sull’Italia la
peggiore tra tutte le cappe possibili: quella della negazione della
realtà e dell’immediato passato, della rinuncia all’assunzione di
responsabilità in proprio, della discussione, analisi, confronto,
dibattito, della impossibilità di elaborare il lutto collettivo
(doloroso e tragico come ogni lutto che si rispetti) consentendo al
corpus sociale della nazione di dar vita a degli anticorpi necessari e
sufficienti per avviare un processo alchemico di trasformazione che
avrebbe spinto l’Italia verso la sua evoluzione e il progresso. Non è
avvenuto nulla.
Non perché fosse negato o imposto dalla Legge. Anzi.
Per una ragione davvero molto elementare e banale, ma che ogni italiano
sensato è in grado di riconoscere subito come “assolutamente tutta
nostra”.
Il lutto, la discussione, il dibattito non ci fu, alla fine degli
anni’40, per il semplice motivo che non si trovava un fascista a pagarlo
a peso d’oro. Non solo. Non c’era più neppure un cittadino italiano che
avesse il coraggio di sostenere che lo era stato, come se Benito
Mussolini fosse stato un agente estraneo al dna culturale nostro e
qualcuno lo avesse appiccicato sopra lo stivale obbligando la
popolazione a seguirlo. Questa procedura, abile marchingegno culturale
di derivazione gesuitica, comportò la possibilità (per i fascisti che
contavano) di riciclarsi all’interno del nuovo sistema politico
italiano, offrendo una pratica comportamentale identica a quella
sperimentata decenni prima. Con la novità che seguitavano a essere
fascisti sotto la bandiera del Vaticano, dei socialisti, dei comunisti,
della democrazia cristiana. In tal modo, la società italiana ha
seguitato a perpetrare il modello fascista e clerico-fascista senza aver
prodotto alcun sistema immunitario adeguato, senza aver prodotto alcuna
evoluzione, condannando se stessa a riproporre per l’eternità sempre e
soltanto l’unico modello originale che ha prodotto.
Tant’è vero che, quando nel 1969, il più libero e geniale provocatore
intellettuale che l’Italia abbia prodotto negli ultimi 60 anni, Pier
Paolo Pasolini, cominciò a denunciare l’allora sistema vigente come “la
prosecuzione del sistema clerico-fascista di cui democristiani e
comunisti ben rappresentano la mummificata deriva che impedisce
all’Italia la necessaria mutazione antropologica” venne considerato un
pazzo pericoloso, accettato soltanto come “artista capriccioso e
visionario” ma niente di più. Finché non venne identificato il pericolo
reale delle sue argomentazioni e fisicamente eliminato. Come fecero
anche con la Grande Madre del Pensiero Libero Italiano, una
intellettuale poderosa, stupefacente interprete e leader di istanze
davvero rivoluzionarie, Maria Antonietta Macciocchi (in Italia pressoché
sconosciuta al 99% della popolazione) la quale nel 1969 venne radiata
dal PCI “per indegnità”, rea di aver iniziato, allora, a denunciare “il
pericolo del consociativismo tra l’uso clientelare del potere
democristiano e le forze di opposizione, elemento pericoloso per il
tessuto sociale, perché sta spingendo il paese verso una omologazione il
cui fine obbligato sarà una totale e definitiva incorporazione di un
concetto piatto e mercantilista dell’esistenza che spazzerà via il
tessuto connettivo dell’intelligenza e della cultura nazionale”.
Ci provò un grosso storico, un bravo intellettuale di area moderata, nel
1971, dopo un intenso e magnifico lavoro di ricerca documentata durato
ben sette anni di lavoro collettivo, il Prof. Renzo De Felice, che diede
inizio alla pubblicazione in diversi volumi della monumentale Storia
del Fascismo pubblicata allora dalla casa editrice Einaudi di Torino. In
Italia, il suo superbo lavoro venne considerato uno scandalo. Perché
aveva osato –nel terzo tomo- dedicare 350 pagine all’analisi di quel
periodo che lui aveva definito “Gli anni del consenso” nei quali
descriveva, con la consueta meticolosità dei consumati storici
d’archivio di prima caratura, il perché, il come, il quando, il quanto,
il popolo italiano avesse amato e adorato il fascismo. Venne considerato
un mascalzone reazionario. 25 anni dopo, l’Italia non era ancora pronta
a ripensare se stessa. Allora, nel dibattito che si aprì (e
frettolosamente si chiuse ) nacque una inèdita sorpresa: la cultura
ufficiale cattolica sposò la tesi comunista e attaccò il prof. De Felice
con le stesse identiche argomentazioni. Sintetizzate in una frase
banale: “non è vero che Mussolini ebbe il consenso del popolo; gli
italiani furono vittime innocenti di un dittatore”.
Non è così.
Aveva ragione il prof. De Felice, che riposi in pace.
Questa era una premessa per arrivare al tema del giorno che è il seguente:
“Comincia ad allargarsi, provenendo dalla Francia intellettuale, che sta
svolgendo un ottimo lavoro capillare silenzioso, un nuovo movimento
collettivo di rivolta in Europa. Che sta nascendo adesso in forme nuove e
originali, e che ha come baricentro la Spagna”.
Ma non è nato lì. Come “movimento” è nato in Irlanda, etnia orgogliosa,
la quale da tre mesi sta affrontando tecnicamente un problema (un
problema soprattutto per la BCE e per la Unione Europea) non di lieve
entità: il partito Sinn Feinn ha lanciato, con enorme successo, lo
sciopero delle tasse. Al 31 luglio 2012, il 67% dei cittadini che doveva
pagare la loro IMU si è rifiutata di farlo, con una argomentazione
davvero elementare e nient’affatto ideologica: “non abbiamo i soldi”. Il
che vuol dire (in Irlanda vale l’uso delle nazioni anglo-sassoni dove
l’evasione fiscale è considerato reato penale contro l’integrità dello
Stato) che – in teoria- avrebbero dovuto mettere agli arresti milioni di
cittadini. L’Europa, saggiamente e subdolamente, ha deciso la strada
più ignobilmente sensata: far finta di niente. Gli irlandesi non hanno
pagato, ma non verranno puniti, perché intanto si sono inventati di sana
pianta un nuovo e magico dispositivo che consente loro (stanno
cambiando apposta delle leggi) di pagare in un prossimo futuro. Ma le
notizie, anche se esiste la censura della BCE, comunque sia, viaggiano.
E, arrivate in Grecia, hanno provocato la richiesta da parte del governo
greco “allora anche noi vogliamo delle dilazioni, perché gli irlandesi
sì e noi no?” e non potendo dire loro “no, voi no” allora l’hanno
risolta così: la troika, ad Atene, avrebbe dovuto emettere un
comunicato-sentenza (la scadenza era il 15 settembre) e invece ha
dichiarato “abbiamo deciso di rimandare l’emissione del nostro
definitivo rapporto al 15 novembre 2012”. La BCE ha accettato.
Che io sappia, non c’è stato nessun giornalista italiano che abbia speso
un grammo di energia per andare a domandare ai membri della troika:
“perché il 15 novembre?”.
E’ la data entro la quale, secondo l’oligarchia finanziaria, i giochi
dovrebbero essere stati fatti definitivamente. Puntano alla sconfitta di
Chavez il 7 ottobre, alla sconfitta di Obama il 6 novembre e alla resa
incondizionata del Giappone il 31 ottobre che, per la prima volta nella
propria storia dal 1945 ad oggi, abbandonerebbe la politica economica
keynesiana –pena l’espulsione dal FMI (è per questo che tengono il
paese alla corda con la ridicola e pretestuosa storiella di quella
isoletta sperduta nel pacifico) e accetterebbe di rispettare i parametri
restrittivi, cancellando così il proprio programma di investimento di
2000 miliardi di euro previsto per il 2013. Puntano alla soluzione
diplomatica della guerra civile in Siria, sostenuti dall’ingresso dei
capitali qatarioti e arabo-sauditi dentro le industrie italiane e
spagnole, si sposteranno le aziende più succose nel Golfo Persico e si
userà l’Europa continentale come enorme bacino di mano d’opera e forza
lavoro pronto a esportare ingegneri, architetti, scienziati, designer,
manovali, edili, operai specializzati. Come hanno spiegato molto bene
alla televisione spagnola qualche giorno fa “davanti al ricatto o sei
disoccupato e muori dalla fame oppure vai a lavorare a Doha, nel
deserto, è chiaro che si accetta l’idea di andare lì; ma qual è il
prezzo culturale ed esistenziale che paghiamo per tutto ciò?
Vale la pena?”.
Ritorniamo quindi ai movimenti.
Dall’Irlanda e dal vicino Portogallo (continue manifestazioni, scioperi,
serrate, scontri avvenuti negli ultimi quaranta giorni nel paese) e
adesso la Spagna, si è venuto a formare un vastissimo movimento in tutta
la zona mediterranea, che sta valicando anche i monti Pirenei, che è
andato al di là della consueta e mediatica “indignazione”, perché è
sostenuto da una teoria culturale. Ha la forza di un movimento originale
autoctono. E’ basato sul recupero della narrativa esistenziale, sulla
salvaguardia della propria forza locale e sul principio
dell’auto-determinazione in funzione sovranista. A tal punto da aver
svegliato addirittura le fantasie scissioniste dei catalani, da decenni
assopite, visto che a Barcellona, a San Paol de Mar, si cominciano a
formare – spuntano come funghi- delle fortissime sacche di protesta e
resistenza non contro la BCE e non contro la Merkel, bensì contro il
governo di Madrid, non più identificato come capitale del Regno, bensì
come cancelleria di un governo globale extra spagnolo e quindi nemico
della fortissima identità iberica di quell’etnia.
Noi, questo lusso, non ce lo possiamo ancora permettere.
Gli italiani non si sono neppure accorti che vivono sotto al fascismo,
come potrebbero organizzare una ribellione a qualcosa della cui
esistenza non sono consapevoli? Intendiamoci, non il “fascismo” inteso
come sostantivo, ovverossia quella specifica ideologia che si richiama a
Benito Mussolini, che ha quei simboli, quelle effigi, e pensa al Duce o
clownerie del genere. Qui, uso il termine “fascismo” come aggettivo
(nel senso pasoliniano e macciocchiano del termine) ovverossia
l’identificazione di un sistema politico, culturale, mediatico e quindi
anche e soprattutto economico, basato sull’idea che una ristretta
cerchia di privilegiati oligarchici ha il diritto di esercitare un
predominio di dominanza sul resto della popolazione perché sono
superiori come classe, come ceto, come status, garantito dai partiti e
dalla leggi vigenti. Il che mi consente di dire che Fiorito è un
fascista (lui lo è anche come sostantivo) né più né meno di quanto non
lo sia Lusi o Penati o Tedesco, i quali, in teoria sarebbero di
sinistra, ma in realtà sono dei fascisti come aggettivo: è l’esecuzione
della loro comportamentalità che li definisce. Che veicolino nei comizi
dei discorsi di destra o di sinistra, laici o credenti, è irrilevante;
così come è irrilevante il partito o la fazione alla quale appartengono.
Una ribellione autentica italiana (nel senso di “assolutamente originale
e non scopiazzata”) non è la variante tricolore di” occupy wall
street”, Dio me ne scampi e liberi. Quella sarebbe soltanto moda e
marketing mediatico, quindi destinato a una pronta usura.
Un’azione originale, necessaria subito, consiste in una trasformazione
individuale e interiore, prima di ogni altra cosa, che cominci a
produrre delle immediate mutazioni comportamentali, compresi gli
anticorpi necessari per individuare subito in qualsivoglia interlocutore
il “fascista come aggettivo” andando a rifondare e ritrovare il seme
proficuo della grande tradizione della Cultura Italiana, dove ci
mescoliamo insieme Michelangelo e Adriano Olivetti, Federico Fellini ed
Enrico Mattei: tutti fratelli tra di loro.
Perché quelli sono i Fratelli d’Italia.
E’ sulla esistenzialità che si verifica la novità originale.
E’ sull’applicazione di un nuovo modello psico-culturale che non sia
fascista, che non sia autoritario bensì autorevole, che non sia
spaventevole bensì eccitante, che non sia avvilente bensì esaltante, in
grado di fornire un nuovo modello culturale della solidarietà a
partecipazione umana, che parta dal presupposto di porre al centro di
ogni vicenda, ogni teoria, ogni impulso, ogni discorso, le persone nella
verità delle loro esistenze. E non più teorie, aliquote, grafici,
tendenze, mode, e astruse locuzioni incomprensibili che finiscono per
operare in maniera terroristica offuscando la possibilità di praticare
il libero esercizio del proprio pensiero. Esattamente come operava il
fascismo (come sostantivo).
Il vero problema italiano, tutto italiano, non consiste nel fatto che
non si hanno più neppure dieci euro, bensì nella codificazione delle
proprie fantasie più profonde, tali per cui si invidia uno come Fiorito
invece che nutrire per lui un sereno e naturale disprezzo civile. Quando
ciò accadrà, quando il furbo sarà disprezzato e non invidiato, allora
si potrà cominciare a pensare all’ipotesi di poter organizzare e gestire
delle manifestazioni coordinate di protesta come in Spagna.
Quando cominceremo a riappropriarci del Senso esistenziale della
Cultura, che avrà abbattuto il fascismo che è in noi, allora saremo
pronti a costruire un’alternativa.
Perché la consapevolezza nasce dall’assorbimento e interiorizzazione di
una Cultura italiana innovativa, che va verso l’evoluzione della nostra
etnia.
Nel frattempo, non possiamo che seguitare a seguire mode altrui.
In attesa che nostra zia Maria ci telefoni per darci la buona notizia
che ha convinto il cugino Piero (che noi disprezziamo da sempre) a farsi
latore presso l’assessore di turno per aggirare la Legge. Nel nome di
“tengo famiglia”. Lo stesso principio che nel 1943 spingeva qualcuno ad
andare alla Gestapo a fare la delazione di anime innocenti per avere un
tornaconto.
Se non si uccide il fascista aggettivo che è in noi non si può aspirare a
pensare di combattere un governo fascista sostantivo. Gli spagnoli lo
sanno benissimo. Loro hanno avuto Garcia Lorca. Noi no. E’ per quello
che protestano, noi non lo possiamo ancora fare.
Siamo un popolo di fascisti invidiosi, questo siamo diventati.
E tanto prima ne prenderemo atto, tanto più ce ne libereremo.
La strada è ancora molto lunga.
Sta a ciascuno di noi fare in modo che il percorso si accorci sempre di
più, per regalarci di nuovo lo splendido panorama di una possibile
utopia per la quale valga la pena di combattere e poter capire, dentro
al nostro cuore, il Senso di una bellissima frase del reverendo Martin
Luther King “se un uomo non riesce a trovare, nella propria esistenza,
qualcosa di talmente forte per cui vale la pena di morire pur di
sostenere quell’idea, quel principio, quel valore, allora quell’uomo ha
buttato via la sua esistenza e la sua vita non vale nulla”.
Lui ci credeva nella sua lotta per dare pari dignità ai neri d’America, e
si è fatto uccidere per questo. Sapeva che di lì a qualche decennio un
nero sarebbe diventato il loro presidente. Da noi ci sono stati Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino, sono stati i nostri Luther King.
Il fatto di toccare con mano che la vittoria della criminalità
organizzata in Italia, oggi, passa attraverso la constatazione che la
classe politica che ci rappresenta ha incorporato un atteggiamento
individuale di “autentica criminalità esistenziale legalizzata”, la dice
tutta sull’inutilità del loro sacrificio e sul grave ritardo
dell'intera cittadinanza, compresi i movimenti tutti. Nessuno escluso.
Restituire alla Cultura la prerogativa dell’egemonia sul gossip, vuol dire recuperare il gap.
Non abbiamo molto tempo.
Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Link: http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/2012/09/dublino-atene-e-madrid-in-rivolta.htmll
25.09.2012
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=10868
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