Mekong. Dighe ed investimenti strategici cinesi.
Giuseppe Sandro Mela.
2019-02-23.
Il Mekong, dodicesimo fiume mondiale, costituisce il rifornimento idrico di tutta la penisola indocinese.
Sarebbe davvero banale constatare che chi lo governa ha in mano tutta la regione.
«We in China think that all countries have the right to determine their own foreign policy»
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«China is not meddling in political debates»
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«For many years, Cambodia has largely depended on financial support from Western countries. This is changing and Chinese aid and loans to Cambodia now far exceed those of the US»
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«And contrary to the West, China doesn’t set conditions when it comes to protecting human rights and democracy. With Beijing on his side, Cambodian PM Hun Sen has criticized the West and accused the US of attempting to overthrow his government»
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«Diminished US strategic leadership in the region also pushes Mekong states to turn to China»
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«Per comprendere cosa sia il Lancang-Mekong potrebbe essere sufficiente guardare la cartina.
Attraverso sei differenti nazioni si snoda un fiume lungo 4,880 kilometri, con una portata di 94 milioni di metri cubi l’ora: settimo fiume mondiale per lunghezza e dodicesimo per portata.
Tenere sotto controllo il Lancang-Mekong è opera ai limiti delle possibilità umane, ma ben ne vale la pena ricordando le morti e distruzioni che le sue esondazioni causano ad un bacino di 810.000 km².»
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«A cosa mai servirebbe lo stato se non a garantire ai Cittadini almeno tutte quelle infrastrutture che impediscono o perlomeno riducono le esondazioni dei fiumi e le altre calamità naturali? Sono invero grandiose opere pubbliche, della utilità delle quali quasi non ci se ne accorge quando esse siano in essere.
Similmente come acquedotti efficienti, sistemi fognari degni di quel nome, accesso alla erogazione della corrente elettrica, ed un sistema viario su ruote o su binari ragionevolmente efficiente.»
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Il Corriere si lamenta grandemente di come il sistema di dighe costruite dai cinesi abbiano cambiato la configurazione del Mekong. In particolare si lagna che:
– la pesca fluviale sarebbe molto ridotta;
– le organizzazioni ambientaliste sono sul piede di guerra anche …. sono destinate a distruggere l’ecosistema esistente;
– i danni arrecati da dighe e canali alla pesca, all’agricoltura e al turismo sono superiori ai benefici (elettricità e trasporti).
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L’articolista non tiene in alcun conto un altro fenomeno ben più rilevante: il Mekong è tristemente noto per le sue periodiche esondazioni altamente distruttive.
«Almeno 30 persone sono morte in Cambogia nelle recenti alluvioni causate dalle forti piogge che hanno fatto straripare il fiume Mekong. Lo rende noto la polizia, precisando che quattro persone, probabilmente siriane, sono morte ieri sera quando la loro auto è finita in uno stagno. Da quanto riferisce la polizia, infatti, un sopravvissuto che non parla né inglese né khmer ha indicato la Siria su una mappa. La commissione cambogiana di gestione dei disastri ha inoltre aggiunto che le inondazioni hanno costretto oltre novemila famiglie ad abbandonare le loro case e hanno distrutto quasi 100mila ettari di risaie. Le alluvioni, che hanno colpito anche Thailandia e Laos, hanno inoltre distrutto o sommerso quasi 67mila case e centinaia di scuole. Il governo cambogiano ha avvertito che le piogge continueranno fino alla serata di oggi, quando il tifone Wutip sarà sul vicino Vietnam.»
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Imbrigliare un fiume con una successione di dighe è l’unico sistema noto per ridurre il flagello delle esondazioni.Ed è quello che hanno fatto i cinesi.
I morti annegati durante le esondazioni se ne sarebbero fatti un baffo a torciglione, uno di qua ed uno di là, delle istanze degli ambientalisti che sarebbero preoccupati dell’ecosistema: avrebbero soltanto voluto poter vivere, e vivere senza l’incubo del fiume.
Ma al Corriere ben poco interessano le 67,000 case distrutte assieme a 100mila ettari di risaie, per non parlare dei morti.
Gli stanno più a cuore i pangasi ed i peschi gatto del Mekong.
Che si salvi l’ecosistema a discapito di quegli stramaledetti esseri umani!
Gran brutto segno prognostico quando l’ideologia ottunde l’encefalo.
Sei sbarramenti costruiti da Pechino sono il via di un processo che trasformerà il fiume in un sistema di canali navigabili e laghi artificiali. Lo studio: i danni arrecati alla pesca, agricoltura e turismo superiori ai benefici (elettricità e trasporti).
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Lungo e strettissimo, il battello scivola sulle acque del Mekong facendo lo slalom tra le rapide e i pescatori che gettano le reti dalle loro povere barche: semplici tronchi scavati. Ogni tanto una sosta davanti ai villaggi per caricare agricoltori diretti in città. I campi arati arrivano fino alla spiaggia sabbiosa, attraversata anche dai bufali che cercano refrigerio nel fiume. Scene di un mondo destinato a scomparire. Le sei dighe costruite dalla Cina nel tratto in cui il fiume, che nasce sull’altopiano del Tibet, attraversa il suo territorio, hanno già ridotto di molto la quantità di pesci pescati nelle sue acque e quella dei sedimenti che fertilizzano le terre del bacino del Mekong: un’area che comprende quattro Paesi (Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam) nella quale vivono 60 milioni di persone la cui esistenza dipende in misura sostanziale dal fiume. Con i suoi 4.500 chilometri il Mekong è il dodicesimo fiume del mondo, ma è anche il più pescoso in assoluto e quello col più alto grado di biodiversità, dopo il Rio delle Amazzoni. Ora tutto sta cambiando perché le sei dighe costruite da Pechino sono solo l’inizio di un processo destinato a trasformare il Mekong in un sistema di canali navigabili e laghi artificiali attraversati da decine di sbarramenti: la Cina ha in programma la costruzione di altre 21 dighe sul suo tratto del fiume ma, soprattutto, ha lanciato un programma di assistenza economica al Laos, alla Cambogia e alla Thailandia basato sul finanziamento di altre decine di dighe nei loro territori per la produzione di energia elettrica e per consentire a navi di tonnellaggio più elevato di percorrere il fiume dalla Cina fino a Luang Prabang, l’antica capitale del Laos protetta dall’Unesco.
Ambientalisti sul piede di guerra
Le organizzazioni ambientaliste sono sul piede di guerra anche perché secondo vari studi alcuni di questi impianti — soprattutto le due grandi dighe laotiane di Pak Beng e Pak Lai e quella cambogiana di Sambor — sono destinate a distruggere l’ecosistema esistente. Ma la loro voce è flebile in un Paese comunista come il Laos, sotto il regime filocinese della Cambogia o anche nella Thailandia che, dopo il golpe militare, si è avvicinata e Pechino riducendo i legami con l’Occidente. Fin qui la Cina ha fatto notizia soprattutto per il suo espansionismo nel Mar Cinese Meridionale. Secondo molti analisti, però, è più significativo quello che accade sulle rive del Mekong. Con la sua idrodiplomazia, Pechino sta trasformando l’Indocina in una sorta di «cortile di casa»: come l’America Latina per gli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento. La Cina promette di portare ovunque benessere sotto forma di investimenti in opere pubbliche, produzione di energia idroelettrica, nuove vie di comunicazione. I governi dell’area reprimono il dissenso ma hanno, comunque, anche loro, parecchi dubbi. Al Laos, Paese molto povero e montuoso, è stato promesso di diventare «la batteria del Sud Est asiatico». Sugli affluenti del Mekong e sul fiume sono già state realizzate 46 dighe (per una potenza di 6.500 megawatt) e altre 54 sono in costruzione.
I grandi impianti sul Mekong
Ma i grandi impianti sul Mekong (e il progetto di minare alcuni fondali per rendere il fiume più navigabile) hanno suscitato molte perplessità. Anche perché secondo varie indagini (comprese quelle realizzate in Cina e che non dovevano essere divulgate), i danni arrecati da dighe e canali alla pesca, all’agricoltura e al turismo sono superiori ai benefici (elettricità e trasporti). Nel luglio scorso, dopo il crollo di una diga nel Laos (70 morti e seimila senzatetto) il governo ha annunciato una sospensione del suo piano. E più a nord, in Thailandia, a Chang Rai, l’uso della dinamite per scavare il letto del fiume è stato sospeso dopo le proteste della popolazione. Ma in Laos, in realtà, i cantieri non si sono mai fermati e anche altrove non ci sono cambiamenti di rotta in vista: indebitatissimo, il Laos sa che queste opere pubbliche potrebbero rivelarsi in futuro un buon affare solo per Pechino, ma ora ha un bisogno disperato di questi investimenti finanziati dalla Cina (11 miliardi di dollari di prestiti).
«È tardi per i rimpianti»
Il prezzo da pagare è una perdita di sovranità col rischio di conflitti tra Paesi indocinesi, magari messi uno contro l’altro dalla Cina: la River Commission con la quale per decenni i 4 Paesi dell’area hanno gestito il Mekong è stata esautorata nel 2015 da un nuovo organismo di cooperazione multilaterale dominato dalla Cina e con sede a Pechino. È tardi per i rimpianti, dice Thitinan Pngsudhirk, studioso dell’università di Bangkok: la partita la Cina l’ha vinta quando ha creato le sue dighe a monte con le quali, se volesse, potrebbe lasciare a secco i Paesi del bacino del Mekong.
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