La lectio magistralis del costituzionalista - e
comunista - Gianni Ferrara: questa Unione Europea non prevede meccanismi
di riforma "dal basso". Né nazionali, né tantomento "popolari". E' ora
di prenderne atto.
Andare dentro i problemi, analizzare le strutture da ogni angolazione.
Per muoversi “contro” il sistema di potere dominante è il minimo della
pena. Studiare, capire, ipotizzare, progettare e quindi –
obbligatoriamente – muoversi. Ma guai a reagire in modo “pavloviano”,
perché “pungolati” da qualche avvenimento, senza avere un quadro almeno
realistico e attendibile della scena su cui ci si muove.
Riflessioni metodologiche? In parte, ma vengono in primo piano quando si
ascolta uno scienziato descrivere il problema su cui gli è stato
chiesto un parere molto informato.
Abbiamo ascoltato con grande attenzione, al seminario sull'Europa e il
Fiscal Compact - svoltosi sabato 25, a Roma, su iniziativa del Comitato
No Debito - la relazione di Gianni Ferrara. Costituzionalista,
professore emerito alla Sapienza, ma anche comunista di vecchia e seria
scuola.
Gli era stato chiesto di indagare sulle possibilità – l'”ammissibilità” -
di un referendum “di indirizzo” su alcuni trattati costitutivi
dell'Unione Europea, tipo il Fiscal Compact, che stanno annientando le
capacità produttive del paese, le sue risorse finanziarie, il suo
“modello sociale” welfaristico, e ancor più drasticamente lo faranno a
partire dal prossimo anno (quando visognerà cominciare a ridurre di
almeno 50 miliardi l'anno il debito pubblico, ovvero la spesa statale a
qualsiasi titolo, ferma restando solo la “spesa per interessi” sul
debito stesso).
La risposta, come da lui premesso, è stata molto negativa.
Ma l'aspetto più interessante della sua lectio magistralis è stato il
viaggio dentro l'ingranaggio mortifero che è stato costruito in poco più
di 30 anni, nella completa sottovalutazione della classe politica
italiana, e dall'ex “sinistra” soprattutto. Un engrènement che non
lascia margini per la propria “riformabilità”, tantomeno per quei paesi
che stolidamente hanno inserito il “pareggio di bilancio” nella propria
Costituzione senza neppure un accenno di discussione
politico-parlamentare. Figuriamoci “sociale”...
Riassumiamo, un po' schematicamente, in modo da restituire informazioni
“strategiche” sui meccanismo istituzionali che – nell'intera Eurozona –
ci governa.
Il Fiscal Compact, in soldoni, precede la cessione di sovranità
dall'Italia alla Ue in materia fiscale e di bilancio. Una conseguenza
della cosiddetta “legge La Pergola”, che fissava la prevalenza delle
norme comunitarie su quelle nazionali prevedendo l'adeguamento di queste
ultime. Antonio La Pergola è stata una figura “tipica” di quel
personale “tecnico-politico transnazionale” che ha contrinuito a
costruire l'”ingranaggio” fatale che ci sta strangolando. Docente di
Diritto Costituzionale e Diritto Costituzionale comparato nelle
università di Padova, Bologna e Roma,, nonché in numerose istituzioni
straniere, basta citarne alcune tra le più prestigiose: Edimburgo,
L’Aja, Dublino, Harvard. Quindi presidente della Corte Costituzionale e
poi ministro per le Politiche Comunitarie, a chiudere il cerchio tra
preparazione teorica, disegno progettuale e realizzazione pratica.
Il Fiscal Compact è un trattato pensato per evitare la “via maestra” dei
cambiamenti istituzionali “consensuali”, saltando pressoché
completamente la “partecipazione” degli Stati alla sua elaborazione. In
altri termini, i Parlamenti non sono stati nemmeno coinvolti (ammesso e
non concesso che avessere competenze interne e volontà politica di
farlo).
L'Italia – ovvero il Parlamento esautorato dal governo Monti – ha
approvato senza discussione, nell'aprile 2012, l'inserimento nell'art.
81 della Costituzione l'obbligo al “pareggio di bilancio”. La
maggioranza è stata volutamente tale da impedire qualsiasi possibilità
di convocare un referendum abrogativo (molto superiore al 66%
necessario).
Contro la modifica del Fiscal Compact, quindi, esistono in questo paese
due ostacoli; il meccanismo interno a quel trattato e l'art. 81
(modificato) della Costituzione.
È possibile aggredire giuridicamente e politicamente queste due norme
restando all'interno del quadro giuridico – nazionale e internazionale –
esistente? È insomma possibile “riformarli”?
Il primo problema, spiega Ferrara, è insito nel fatto che i trattati
internazionali (sottoscritti dai governi nazionali) sono sottratti alla
ratifica parlamentare, in rispetto al principio che pacta servanda sunt.
Principio peraltro di buon senso, altrimenti ogni trattato – per
esempio, sui confini nazionali – potrebbe esser rimeso in discussione ad
ogni cambio di governo, provocando una guerra dietro l'altra. Quindi la
loro modifica dipende soltanto dalla perdita di efficacia per motivi
indicati dai trattati stessi. Ossia:
- quando scadono i termini temporali (nel caso del Fiscal Compact tra
almeno 20 anni, quando di questo paese non sarà rimasta pietra su
pietra);
- quando viene a mancare l'”oggetto” del trattato stesso; ma in questo
caso, purtroppo, l'”oggetto” - le politiche fiscali e di bilancio –
esiste, eccome.
- quando siano cambiate le condizioni che avevano giustificato il
trattato stesso; e anche questo non appare possibile per il Fiscal
Compact (le “condizioni” qui coincidono con una “maggiore integrazione
europea”, e quindi non scadono se non a fronte di un rivoluzionamento
oppure di una guerra).
Esistono strumenti giuridici per bloccarne o stemperarne l'efficacia?
Anche qui Ferrara non lascia troppi margini all'illusione.
Il “referendum di indirizzo” - ovvero non contenente prescrizioni
obbligatorie per il governo e il Parlamento, ovvero nessun “mandato
imperativo”. La legge costituzionale del 1989 lo prevede, ma la sua
efficacia è praticamente nulla. Si può anche vincere la consultazione
con una maggioranza importante, ma l'effetto non si produce.
Neppure il Parlamento europeo ha alcuna sovranità sulla materia dei
trattati. E questa è forse la “notizia” o l'informazione meno nota anche
tra i praticanti della politica, sia “istituzionale” che “alternativa” o
“radicale”. I parlamentari di Starsburgo, infatti, sono privi della
fondamentale prerogativa tipica di ogni “onorevole” o senatore che si
rispetti, a livello mondiale: non possono infatti proporre leggi. A che
serve un Parlamento senza potere legislativo? Nella democrazia
occidentale, come teorizzata e costruita da Montesquieu a oggi, non
serve assolutamente a nulla, tanto che non ne era mai stato fatto uno in
questo modo così bislaco.
Un potere superiore ce l'ha certamente la Commissione Europea (oggi
diretta da Barroso). Può infatti elaborare e proporre leggi
(“direttive”), ma per statuto deve farlo per “realizzare gli obiettivi”
del Trattato di Lisbona. Il cerchio si chiude. A livello europeo non
sono previste procedure di “riforma” istituzionale che correggano parti
rilevanti del trattato fondamentale, quello costituente. Si può solo
andare avanti, senza mai sterzare e tantomeno tornare indietro.
L'insieme dei governi nazionali, insomma, elabora decisioni in modo da
nascondere la responsabilità dei singoli Stati. Ne nasce una retorica
falsificante, per cui ogni governo nega di esser stato tra coloro che
hanno caldeggiato determinate scelte impopolari e si rifugia dietro lo
slogan “lo chiede l'Europa”.
Soprattutto, però, viene così meno definitivamente uno dei principi
fondamentali dello Stato di diritto: la responsabilità degli eletti di
fronte agli elettori, o più indirettamente la corrispondenza tra mandato
e risultato.
In definitiva, per avere la possibilità – in quanto italiani – di
chiedere una modifica di alcuni trattati occorrerebbe una nuova regola
costituzionale. Ma chi è il soggetto o lo schieramento politico che la
farebbe passare? E in ogni caso, saremmo vincolati dagli altri 26 Stati
che componegono l'Unione.
La conclusione è dunque obbligata: non è un referendum di indirizzo che
può realizzare l'obiettivo di invalidare il Fiscal Compact o altri
trattati europei. Certo, come sostiene poi Giorgio Cremaschi, in ogni
caso una campagna referendaria può esser utile a far diffondere una
consapevolezza circa la dannosità di quei trattati e della moneta unica
così concepita. Ma a patto di essere ben coscienti che anche l'eventuale
svolgimento della consultazione (in ogni caso è altamente probabile che
ne venga rifiutata in partenza l'”ammissibilità”) non costituirebbe una
soluzione efficace. Propprio per la natura di questo tipo di
referendum.
Ma Ferrara è uno scienziato militante. Ha quindi indagato anche il
Trattato di Lisbona per vedere se esiste un qualche appiglio giuridico
per rimettere in discussione un trattato. Ne ha trovato soltanto uno, in
un articolo secondo cui ogni Parlamento nazionale può sottoporre al
Consiglio (dei capi di stato e di governo della Ue) una richiesta di
mutamento dei trattati.
È possibile, non certo che ci si riesca, Ma in ogni caso occorre avere
la maggioranza all'interno di un Parlamento nazionale, e quindi di
essere al governo del paese. AL momento, sembra lontana...
Ci sono altri strumenti? A quantopare uno soltanto, previsto dall'art.
11 del Trattato di Lisbona. Una proposta di modifica sottoscritta da
almeno un milione di cittadini europei, appartenenti ad almeno un quarto
degli Stati membri (quindi almeno sette Stati), secondo quote numeriche
minime fissate da tabelle in proporzione alla popolazione.
Una strada certo empiricamente praticabile, ma istituzionalmente di
dubbia efficacia. Alla fine questa simil-”legge di iniziativa popolare”
finirebbe sul tavolo della Commissione (del governo comunitario,
insomma), che ne avvierebbe l'esame e poi deciderebbe come gli pare.
Insomma, anche questa utile per una campagna di sensibilizzazione
politica, non certo per rovesciare il tavolo.
In ogni caso sorgerebbe anche qui, fin dall'inizio, un problema di
ammissibità. Le modifiche propostem infatti, debbono rispondere al
principio di “miglioramento” dei trattati secondo i princìpi
fondamentali. Non appare un'obiezione insuperabile (per esempio, secondo
l'articolo 2, l'Unione deve perseguire tra l'altro la “dignità umana”,
ed è molto facile dimostrare come i trattati oggi in vigore la stiamo
mettendo in forse in numerosi paesi deboli.
L'obiezione definitiva è quindi un'altra. Anche in caso di accoglimento
della “proposta di modifica” popolare da parte della Commissione, questa
diventerebbe efficace solo dopo la scadenza del trattato. Che non è
nemeno prevista.
L'ingranaggio della costruzione europea, infatti, è incardinato negli
art. 119 e 120 del Trattato fondamentale, che riconoscono esplicitamente
come principi generali di funzionamento dell'Unione Europea “l'economia
di mercato” e la “libera concorrenza”. È qui che origina quel programma
di smantellamento del “modello sociale europeo”, fondato sul welfare e
lo “Stato sociale” che è in marcia ininterrottamente da oltre 30 anni
senza che, in Italia, ci sia mai stata una discussione “di merito” su
che cosa voleva dire “facciamo l'Europa” o “ce lo chiede l'Europa”.
Anzi, proprio l'esistenza del “sanfedismo” imprenditoriale – tipicamente
e solo italiano – e della sua rappresentanza politica (Berlusconi e
soci), ha fatalmente “deviato” il senso comune della “sionistra” verso
un europeismo acefalo e disinformato. Una sorta di illusione collettiva
per cui, se ci mettevamo agli ordini di questa Unione Europea, ci
saremmo anche sbarazzati di Berlusconi, degli imprenditori
prendi-e-scappa, di mafia, camorra, ndrangheta e compagnia cantando.
Il quadro ci sembra ora chiaro.
Questa Unione Europea non è riformabile. È stata costruita per non poterlo essere.
Il governo comunitario (la Commissione) e il Consiglio dei capi di stato
e di governo hanno un potere assoluto, svoncolato da ogni
condizionamento parlamentare – sia continentale che nazionale. Ed è
certo significativo che un potere assoluto torni ad avere legittimità e
comando, nel Vecchio Continente, a poco più di due secoli dalla
Rivoluzione Francese, ad uno da quella Russa.
Ma l'impossibilità di riformare la Ue implica l'inutilità del
“riformismo progressista”, il suo svuotamento a logorrea fantasiosa
quanto impotente (non è insomma un caso che sia emerso un Vendola).
Ma un sistema istituzionale che non si può “riformare” lascia come unica
possibilità realistica – ovvero empiricamente efficace, anche se non
facile – soltanto quella della rivoluzione.
Non per caso il costituzionalista Gianni Ferrara riconosce che ogni
iniziativa di “cambiamento efficace” della struttura istituzionale
europea è in queste condizioni “rivoluzionaria”.
Del resto, se è rinato un potere assoluto, significa che sono state
eliminate le vie della mediazione. A cominciare da quelle giuridiche e
costituzionali. Invece di Luigi XIV c'è un Kaiser "collettivo",
un'oligarchia per nulla illuminata.
Dante Barontini
http://www.contropiano.org/archivio-news/documenti/item/16861-referendum-su-euro-e-fiscal-compact-nessuna-riforma-è-possibile
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=59915#top
postato dall'utente "radisol"
Vi invito a leggere i commenti su Cdc, sopratutto l'ultimo e che rimanda a un link "possibilista".
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