lunedì 27 maggio 2013

FEMMINICIDIO” LA BOLLA MEDIATICA DI ULTIMA GENERAZIONE (Deconstructing Italy 01)

E ora navighiamo nella normalità grigia, a cui ci siamo abituati nel corso degli anni e che in effetti non ha molto di normale. Anzitutto perché non c’è coerenza con l’andamento dei fatti. Meglio: con i dati della realtà. I sentimenti sembrano largamente sganciati dagli avvenimenti. I reati criminali rilevati dalle statistiche giudiziarie non segnalano grandi variazioni negli ultimi 10 anni. Semmai, un calo poco significativo in confronto alle oscillazioni emotive rilevate dai nostri sondaggi sulla popolazione. Al contrario, in questa fase l’emergenza legata al lavoro, all’economia, ai mercati scuote gli italiani. Ma in misura, forse, inferiore alle attese.
Ilvo Diamanti in “La sicurezza in Italia. Significati, immagine e realtà”, Unipolis
People react to fear, not love. They don’t teach that in Sunday school, but it’s true.
Richard M. Nixon

1.1. GOVERNARE IL MONDO CON LA PAURA, LE NARRAZIONI DI EMERGENZA CHE INIBISCONO IL PENSIERO RAZIONALE
In principio furono le rapine in villa, la grande mosca cocchiera che traghettò Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi nel 2001. Non so se ve lo ricordate ma al tempo nei condomini a ringhiera di 36 piani, dove al posto dei nomi sui
campanelli c’è segnato il tipo di droga diversa che si vende in ogni interno, c’era gente che scuoteva la testa contrita davanti al tg1
“Poveri Fumagalli, re della vite filettata, gli hanno rubato la Lambo, auto che in vita mia ho visto solo quando mio figlio gioca a Need for speed. Dannati comunisti! Rutelli pagherai anche questoooo!”
(l’uomo urla/ la telecamera si alza verso il cielo/ Silvio vince le elezioni/ didascalia: tratto da una storia sorprendentemente vera)
In quel tempo la maggior parte degli italiani era ancora così pasciuta e piena di lavoro da riuscire a provare empatia per dei milionari (che allora si chiamavano miliardari, il che già di per sé rendeva l’ammirazione più facile) che venivano spogliati dei loro Rolex e delle loro Porsche da bande di slavi provenienti da una certa guerra per la quale l’Italia non aveva alcuna responsabilità (Le basi Nato sul nostro territorio infatti sono state costruite nottetempo e senza dirlo a nessuno).
Erano ancora lontani i tempi in cui un altro partito azienda avrebbe congelato i voti di milioni di persone per parlare di cose come le caramelle della Camera o le diarie dei parlamentari, portando avanti pubblicamente l’idea molto web generation che pagare il lavoro sia una grave forma d’inciviltà.
Vecchio comico populista e milionario: “Vaffanculo ai soldi”
Quit: “Bene allora dalli a me.
Nel 2001 invece era il tempo di un altro partito azienda, quello che avrebbe tenuto incollato il Paese per vent’anni ai problemi giudiziari del suo leader.
Le cose cambiano ma certi archetipi stimolati dai mezzi di comunicazione di massa restano.
Per questo ci siamo subiti le stragi del sabato sera, gli stupratori rumeni, i pitbull assassini, l’aviaria, la mucca pazza, la sars, la serializzazione di delitti di criminalità comune come Cogne, Avetrana, Perugia, Garlasco, che da singoli eventi di cronaca senza un grande significato sono diventati narrazioni collettive, trattati sociologici del terrore che predicano un male nascosto ovunque nella nostra società.
“Hai sentito anche tu questo rumore?”
“Non è niente, è solo il vento”
“Non poteva rimanere al suo paese?”
“Temo sia già tutto attorno a noi”
“Speriamo almeno non gli diano una casa popolare”
Tutto questo a fronte di un numero di reati violenti che o si manteneva costante o in alcune voci diminuiva. Quello che non diminuiva di certo era la percezione di insicurezza degli italiani; la minaccia era sempre più sulla porta. Per questo ovviamente dobbiamo ringraziare i media tricolore: nel contesto europeo l’infotainment sull’argomento criminalità comune e la sua serializzazione sono una specialità tutta italiana, un po’ come non rispondere ai giornalisti dicendo che sono al soldo di qualcuno o che sono comunisti.
Sempre dal rapporto La sicurezza in Italia di Unipolis:
Soltanto in Italia si dedica uno spazio così ampio e dilatato alle “notizie” sulla sicurezza. Un tempo smisurato, che nel principale tg nazionale è da solo più elevato di quanto tutti gli altri tg europei messi insieme dedicano al tema.
Non c’è niente che tiri per i media italiani quanto gli attacchi alla sicurezza personale, sia essa fisica o sanitaria. I perché sono principalmente due:
  1. è un tipo di informazione emozionale che funziona in termini di ascolti. L’argomento è al tempo stesso universale e privato: tutti abbiamo un corpo e tutti quelli di noi che non sono il Pd preferirebbero tenerlo intatto;
  2. è un tipo d’informazione che fa comodo ai progetti politici reazionari.
It’s not that conservative people are more fearful, it’s that fearful people are more conservative
R.Mc Dermott, Brown University
Negli ultimi 30 anni il progetto politico neoliberista ha polarizzato la società aumentando esponenzialmente le disuguaglianze, privatizzato quasi tutto il privatizzabile ( il “quasi” dipende da qual è il giorno della settimana in cui leggete questo post), distrutto l’istruzione pubblica regalando soldi a quella privata e accettando il dogma delle lobby industriali europee (come l’Ert) che volevano un’istruzione non più basata sul concetto di “conoscenza” bensì su quella di “competenza” per sostituire i cittadini con dei lavoratori il più docili e flessibili possibile.
Non ce ne frega un cazzo del velo d’ignoranza di Rawls, l’unica ignoranza che vogliamo è la tua L’egemonia culturale neoliberista ha ridotto gli spazi della socialità, alimentato quotidianamente la mitologia dell’individualismo e del consumismo elevandoli a “unici occhi attraverso cui vedere il mondo”, istituzionalizzando il credo “tutto si può comprare” e l’idea che ciò che non è commerciabile semplicemente non è.
Alla fine, non paghi, hanno defraudato un’intera generazione della propria vita, la stessa che avevano cresciuto con le aspettative più alte della storia e l’hanno fatto senza trovare alcuna resistenza.
In qualche modo che non capisco fino in fondo, è stato come se essere cresciuti guardando Hello Spank non ci avesse preparato a una controrivoluzione conservatrice su scala mondiale Tutto questo avrebbe potuto generare incazzatura e scene di rivolta popolare al cui confronto Germinale sarebbe sembrato una domenica senz’auto, ma non è successo nulla di tutto ciò.
Perché?
Due dei motivi principali sono: l’enorme potenza passivizzante dei mass media e il diffondersi della politica della paura, due cose che sono andate di pari passo e infine si sono evolute nella comunicazione emozionale e ultra semplificata di internet.
Il neuroscienziato di Harvard David Siegel ha dimostrato con i suoi studi che la paura compromette gravemente la capacità di ragionare degli esseri umani facendoli propendere per soluzioni controproducenti purché abbiano caratteri dell’immediatezza e dell’assolutezza.
“Quando siamo spaventati” ha spiegato Siegel all’edizione americana dell’Huffington Post “siamo biologicamente programmati a prestare meno attenzione ai segnali dell’emisfero sinistro del cervello, per questo la parte logica della mente si spegne. La paura paralizza il nostro ragionamento e rende letteralmente impossibile pensare in maniera articolata. Quello che facciamo invece è cercare segnali emozionali, non verbali da altri che ci facciano sentire in salvo e al sicuro”.
Il cervello di una persona che ha paura assomiglia per capacità intellettive a quello di un bambino
“A un livello più profondo, noi reagiamo come adulti più o meno allo stesso modo in cui reagivamo da bambini. È un istinto primario. I bambini hanno l’infanzia più dipendente fra quella di tutte le specie animali. La nostra sopravvivenza dipende da chi si prende cura di noi”
strategie politiche basate su queste evidenze biologiche sono state portate avanti da sempre (il lione di Machiavelli solo per citare l’esempio teorico più noto), ma solo negli ultimi trent’anni sono state sistematizzate e utilizzate con scientificità nel dibattito politico.
Il risultato è stato un’opinione pubblica sempre più orientata dai media (guidati a loro volta dagli interessi politici, economici e finanziari) a ragionare sulla cosa pubblica per emergenze, spesso scelte arbitrariamente, e sempre meno per pianificazioni e analisi rigorose dei problemi complessi.
Questa tendenza innestata su un paese come l’Italia, dove l’emergenza era già storicamente uno dei più consolidati modus operandi della politica, ha creato effetti ancora più disastrosi che nel resto dei paesi europei.
È proprio grazie a questo continuo susseguirsi di narrazioni d’emergenza che di fronte a una spoliazione dei diritti senza precedenti non abbiamo assistito a significative reazioni sociali. Siamo arrivati al paradosso di avere persino un partito-azienda (il m5s) che incarna esso stesso una narrazione d’emergenza, ovvero un partito che attraverso una retorica para-fascista e semplificatrice incanala il dissenso verso provvedimenti demagogici che a ben guardare seguono esattamente il solco ideologico di chi la crisi l’ha creata. Funziona cioè esattamente come tutte le narrazioni di emergenza mediatiche. Non a caso è un partito che si è fatto anche organo d’informazione come ho spiegato qui
Esempio di narrazione di emergenza del m5s: “La gestione dei finanziamenti pubblici da parte dei partiti è opaca e origina spesso fenomeni corruttivi”
Soluzione semplificata figlia del clima d’emergenza: aboliamo i finanziamenti pubblici
Effetto collaterale (in)desiderato: la politica diventa ancor più affare per i ricchi
Oh ma chi poteva immaginarlo!
Tu, se non ti fossi fatto dominare dalle emozioni
Quel bambino ha un gelato, posso avere anch’io un gelato?
Le narrazioni delle emergenze intrattengono, indignano e inibiscono il pensiero complesso.
Indovinate chi ne approfitta?
1.2 L’ESEMPIO DELLA CRISI DELLO SPREAD
Prendiamo il caso della crisi dello spread del 2011. Per mesi l’emergenza spread ha tenuto banco sui media italiani alterando pesantemente il processo democratico nel nostro Paese.
La paura per un indice che fino a quel momento, esclusi gli addetti ai lavori, nessuno conosceva è stata diffusa in maniera pressoché unisona da tutti i media nazionali, tanto che in brevissimo tempo il terrore per quest’indice ha raggiunto valenze quasi magiche e ha portato alla sospensione della democrazia impedendo il ritorno alle urne e preferendogli l’istaurazione di un governo della finanza, un esecutivo legato mani e piedi a quelle stesse forze che avevano creato l’emergenza spread con le speculazioni.
Un caso da manuale di emergenza costruita e utilizzata ai fini di controriforma conservatrice.
Dopo quel momento, che non è ancora finito dato che ci ritroviamo con una specie di governo pseudo tecnico e bipartisan che nessuno avrebbe creduto possibile tre mesi fa, lo spauracchio spread è stato rimesso in un cassetto, pronto a essere riutilizzato nel prossimo momento in cui la chiamata alle urne potrebbe minacciare gli interessi della finanza nazionale e internazionale.
Nessun dibattito serio e strutturato ha occupato le pagine dei maggiori quotidiani su quanto fosse grave che un indice economico riguardante il debito pubblico influisse in maniera così devastante sulle procedure democratiche di uno Stato sovrano.
Probabilmente gli storici vedranno in quel frangente uno dei momenti chiave dell’abdicazione del potere democratico nei confronti di quello economico, la cifra della nostra epoca, ma ciononostante il tema non è mai sembrato degno di nota ai media italiani.
La reazione è stata invece la classica reazione d’emergenza: occultato il contesto e le cause profonde della crisi (la speculazione finanziaria, la globalizzazione delle merci ma non dei diritti, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la distruzione del potere d’acquisto e delle tutele del lavoro), tutte questioni rimosse senza colpo ferire grazie al clima di paura.
Ancora una volta: i media hanno incanalato l’opinione pubblica all’interno delle soluzioni proposte dagli stessi soggetti che avevano creato la crisi del debito.
Chapeau.
Più in generale il funzionamento della narrazione d’emergenza per il potere è duplice:
da un lato, occupa buona parte del dibattito pubblico occultando i problemi strutturali del paese e derubricandoli presso la popolazione a “cose che vanno così perché così devono andare” in una specie di accettazione stoica simile a quella di un contadino di fronte al maltempo.
Mi hanno licenziato, non ci sono più le stagioni di una volta Dall’altro, l’emergenza comporta molti preziosi vantaggi per chi ha il potere, permette la sospensione delle normali procedure di garanzia e la loro sostituzione con provvedimenti arbitrari. Ad esempio nel caso delle ricostruzioni dopo i disastri naturali l’emergenza consente di assegnare appalti saltando le normali procedure e affidarli ai propri amici, o ancora di costruire discariche in luoghi protetti perché
“Possiamo forse lasciare i rifiuti in mezzo alla strada a rischio epidemia?”
No, certo che no, ed ecco costruita la discarica dove non si poteva fare, magari a pochi passi da un centro densamente popolato.
Durante tutti gli stati di crisi, le cause e le responsabilità scompaiono in un’amnistia tacita e tombale, la resa dei conti viene rimandata a un futuro che non arriva mai.
Lo stato di emergenza è il giubileo dei cattivi e l’anfetamina che serve al gradimento elettorale di un politico in crisi di consensi.
Più rumoroso, sproporzionato e puramente demagogico è il provvedimento che viene preso, più il politico che lo ha proposto guadagnerà consenso presso la popolazione preoccupata dallo stato di emergenza.
1.3 LA SEMPLIFICAZIONE È IL PRINCIPIO CARDINE DELL’EMERGENZA
La rappresentazione mediatica dei problemi che compongono un’emergenza è sempre connotata da un grado brutale di semplificazione. Il problema viene puntualmente privato delle sue cause e della sua storia
Es: chi era Osama Bin Laden? Un pericoloso pazzoide o lo stesso guerrigliero che gli Stati Uniti avevano finanziato nella lotta contro i russi in Afghanistan?
Politico Repubblicano: “Uno che ti farà la bua se non mi voti” Il problema viene raffigurato in maniera macchiettistica anche nella sua dimensione presente, ingigantito e i suoi tratti fondamentali occultati.
Es. Il terrorismo islamico: è l’espressione di una religione violenta di per sè stessa o una forma di estremismo religioso che prolifera in situazioni socio-politiche disastrose?
Qui è molto chiaro come una corretta comprensione della natura del problema sia un primo passo verso la ricerca di soluzioni efficaci, mentre la sua semplificazione non faccia altro che porre le basi per un suo inasprirsi e radicalizzarsi.
Quando un problema assurge a emergenza mediatica viene proposto in una versione emotivamente e moralmente connotata, che implica tacitamente che chiunque chieda maggiore complessità nell’analisi o insinui dubbi sulla ricostruzione ufficiale allora si stia schierando dalla parte del nemico.
Un ragionamento morale inaccettabile che però porta con sé tutta l’energia emotiva che la percezione di un’emergenza riesce a mobilitare.
L’equazione è:
Se non sei con noi su tutto, sei contro di noi, sei dalla parte dei carnefici
Si crea cioè un Tabù nel discorso pubblico che di fatto lo arresta e permette un’enorme e perniciosa libertà d’azione a chi invece la bolla l’ha creata e la cavalca.
Abbiamo visto molto bene questo meccanismo in azione per quanto riguardava la narrazione politica del partito-azienda di Beppe Grilllo.
“Ma se non voti m5s allora sei per D’Alema/Berlusconi?”
Il voto al m5s era diventata una specie di scelta morale autoassolutoria, una sorta di indulgenza plenaria che puliva la coscienza di ogni peccato, il condono delle coscienze. Questo perché il marketing di Casaleggio era riuscito a caricarlo di una forte valenza simbolico-emozionale.
Questo tipo di gioco funziona molto bene perché l’emergenza nasconde sempre un dramma ad alta carica emotiva di cui nessuno di noi (esclusi i nazisti dell’Illinois) vorrebbe rendersi complice.
Nessuno vorrebbe essere complice di chi uccide innocenti, dei politici corrotti o di chi lascia i terremotati nelle tende, di chi compie violenze sulle donne.
Per questo molti si guardano bene dall’esprimere pubblicamente i propri dubbi sulle bolle mediatiche perché temono di essere assimilati ai carnefici ed essere additati pubblicamente come tali.
È una semplificazione brutale e come tale è ovviamente una forma di violenza, ma al contrario viene percepita spesso come un atto profondamente morale.
Si aggiunga a questo il fatto che mentre chi sceglie di cavalcare la bolla mediatica ha parecchi benefit (acquista o rafforza il suo potere, vende più copie di giornali o libri, ottiene visualizzazioni online) chi tenta di smontarla non riceve nulla in cambio se non violente reazioni isteriche, l’edizione 2.0 dello squadrismo.
Devi proprio essere molto innamorato della natura sfaccettata della verità o un inguaribile cagacazzi per avventurarti in un’impresa di questo tipo.
Ogni riferimento a fatti e/o blogger realmente esistenti è puramente casuale. Il punto fondamentale è che mettere in discussione le versioni ufficiali significa schierarsi realmente a favore delle vittime o nella peggiore delle ipotesi rinforzare quelle dinamiche di libera discussione che dovrebbero stare a fondamento di ogni decisione (di un segno o di un altro) all’interno di una società democratica.
1.4 SEMPLIFICARE SIGNIFICA LIBERARE UN’EMOZIONE
I meccanismi di semplificazione emozionale già ampiamente diffusi nei media tradizionali trovano terreno ancora più fertile nel web 2.0, quello dove chiunque si sente in dovere di esprimere un’opinione, se possibile urlando, in una parodia grottesca e populista della democrazia.
Come ho già avuto occasione di dire, non è un caso se internet, dopo aver promesso la libertà per tutti (con il supporto entusiastico del governo americano), ci ha consegnato un ducetto da quattro soldi che sembra uscito da Drive in come Beppe Grillo.
Ho trattato nel dettaglio gli aspetti salienti della comunicazione di Grillo, della viralità sul web 2.0 e della comunicazione emozionale sui social network sempre in questo post che ironia della sorte è diventato virale anch’esso. Basti qui ribadire che il successo sui social network si crea surfando su un’emozione, e il modo migliore di farlo è creare un brand ultrasemplificato e il più condivisibile possibile. Una di quelle cose su cui, nell’immediato, tutti o quanto meno la stragrande maggioranza delle persone possano istintivamente trovarsi d’accordo.
Fa niente se sotto questa scorza d’inattaccabilità spesso si nasconde una pesante contraddizione, come ho mostrato nel caso dei finanziamenti pubblici ai partiti nel paragrafo precedente. Nel dibattito pubblico odierno ciò che conta è essere semplici, immediati, manichei e soprattutto stimolare una reazione emotiva.
1.5 DALLA NARRAZIONE DELL’EMERGENZA ALLA BOLLA MEDIATICA
Constatato l’enorme potere arbitrario che si cela dentro una narrazione di emergenza, è ovvio che il suo utilizzo non si limiti solo alle vere e proprie emergenze supportate da un oggettivo riscontro statistico.
Quando la narrazione dell’emergenza diventa un modo come un altro di raccontare i fenomeni sociali che interessano una società, quello a cui assisteremo sarà un susseguirsi continuo di bolle mediatiche.
Una bolla mediatica nasce quando viene ingigantita ad hoc l’incidenza statistica di un fenomeno sociale per creare la percezione d’emergenza. Un’operazione che viene compiuta a vantaggio dei bilanci agonizzanti dei media e dei politici che useranno la bolla per i loro scopi e a svantaggio dell’obiettività dell’informazione, della salute dell’opinione pubblica e dell’effettiva risoluzione dei problemi.
Il dibattito attorno al “Femminicidio” è una narrazione d’emergenza che ha anche le caratteristiche di una bolla mediatica. Si porta perciò dietro tutte quei tratti tipici della narrazione di emergenza di cui ho parlato qui sopra, partendo però da un fenomeno di cui viene sosvrastimata esponenzialmente la reale incidenza statistica.
Il fenomeno mediatico dei “femminicidi” ha però anche delle caratteristiche uniche che lo rendono un’interessante case study. Prima di tutto però, giusto per levare un po’ di bava alla bocca alle neo-femministe che stanno leggendo, vediamo le statistiche.
2. FEMMINICIDIO – I NUMERI DELL’EMERGENZA CHE NON C’È:
Non sono certo il primo a dirlo, ormai a chiunque segua con un minimo di serietà giornalistica questo tema, è diventato evidente che non c’è alcun supporto statistico ai deliri di chi in riferimento agli omicidi femminili parla di genocidio nascosto o altre aberrazioni che fanno francamente cadere le braccia e banalizzano il concetto stesso di genocidio. Il che, sia detto chiaramente, è una cosa intollerabile.
Da vent’anni la violenza che sfocia in omicidi in Italia è in calo.
Nel 1992, ce n’erano stati 1275, numero ridotto a 466 nel 2010. Le vittime donne erano state 186 nel 1992, diventate 131 nel 2010 con un calo del 29,57%.
Il calo è stato maggiore per gli uomini ma questo è un dato fisiologico visto che nei primi anni novanta infuriavano le guerre di mafia, che come tutti sanno sono eventi che coinvolgono quasi esclusivamente uomini e sono più rischiosi dei saldi di fine stagione.
Oggi l’Italia è uno dei paesi al mondo statisticamente più sicuri per le donne, come si evince da questo rapporto dell’Onu che potete trovare qui qui e dal quale Sabino Patruno di Noise from America ha ricavato questa tabella che la dice lunga.
Paese Donne uccise (per 100mila abitanti)
Italia 0.5
Regno Unito 0.8
Francia 0.9
Germania 0.8
Svizzera 0.7
Spagna 0.6
Svezia 0.6
Norvegia 0.5
Olanda 0.5
Austria 1.3
Finlandia 1.3
Russia 8.7

Le donne sono in condizioni più sicure rispetto all’Italia solo in Giappone (tasso 0,4), Grecia (0,3), Brunei (0,2), Sri Lanka (0,2), Emirati Arabi (0,2), Fiji (0,2), Samoa (0,2) e Maldive (0). E nelle civilissime Austria e Finlandia il tasso di omicidi femminili è quasi triplo rispetto al nostro.
Un’altra vexata quaestio è relativa a quanti di questi omicidi siano ascrivibili sotto la categoria di “Femminicidio” ( sulla quale ho molto da eccepire, come dirò più sotto); a riguardo riporto un estratto del pezzo di Fabrizio Tonello sul Fatto Quotidiano
Nel 2006, furono risolti i casi di 162 omicidi di donne e, tra questi, 100 erano casi in cui il colpevole era un marito, un fidanzato o un ex. Nell’ipotesi che il tasso di omicidi da parte di uomini con cui le vittime avevano una relazione sia rimasto costante al 62%, com’era nel 2006, le vittime del 2010 sarebbero state 81. Poiché si parla, nei giornali, di 25 vittime nei primi quattro mesi dell’anno, nel 2013 le donne assassinate da uomini che avevano rifiutato potrebbero diventare 75: siamo di fronte a un fenomeno grosso modo stabile, non a un’emergenza mai vista prima.
Questi dati sono più che sufficienti per dimostrare in maniera rigorosa che da un punto di vista scientifico non esiste alcuna emergenza per gli omicidi femminili nel nostro paese. Per maggiori approfondimenti sul tema statistiche consiglio di leggere con attenzione i post che ho linkato in questo paragrafo assieme ai rapporti Istat e Onu, gli unici dati disponibili assieme a quelli del Ministero degli Interni ad essere stati raccolti con metodi scientifici certificati. Sugli altri dati che circolano con imbarazzante disinvoltura sui grandi quotidiani come quelli della fondazione Hume o della casa delle donne, non è nota la metodologia di raccolta. Questo in un paese normale dovrebbe impedire di utilizzarli per degli articoli di giornale, ma siamo pur sempre in Italia e spesso ci tocca a parlare di aria fritta sulla base del sentito dire.
Sul capitolo statistiche mi permetto di aggiungere solo una cosa da uomo che odia la violenza.
Il 25% di vittime di omicidi femminili non sono un’emergenza senza precedenti come la si dipinge, ma sono sicuramente un problema sul quale lo Stato deve lavorare, nei tempi e nei modi più efficaci per una reale azione di riduzione della violenza.
Ma, mi chiedo, il 75% di vittime di omicidi che sono di sesso maschile non sono un problema per nessuno?
Sarò malato ma secondo me il problema dovrebbe essere il 100% degli omicidi. Anche se il dato riguardasse una sola persona in tutto il paese e quella persona fosse un uomo.
News per le neo-femministe: la stragrande maggioranza degli uomini non è composta di maschi prevaricatori e violenti, sono cittadini perbene, esattamente come la maggior parte delle donne, e neanche loro meritano di morire.
2.2. “IL FEMMINICIDIO” O DELLA PAROLA COME ARMA VIRALE
Il termine femminicidio inteso nella sua accezione più oltranzista come “omicidio di una donna in quanto donna” è una palese assurdità logica, sociale e linguistica.
È talmente evidente che sarebbe anche superfluo dirlo se questo mito non occupasse buona parte del dibattito mediatico. Le donne vengono uccise nei contesti familiari o dai partner perché sono parte di relazioni che finiscono o per gravi tensioni emotive di vario tipo.
Con buona pace delle blogger e delle giornaliste neo-femministe:
Un ebreo che viene eliminato in una camera a gas e una donna che viene uccisa dal suo ex sono due crimini efferati e ugualmente intollerabili ma non sono assimilabili in alcun modo.
(Visto che sareste capaci di pensare persino questo: No, non sono ebreo) Non è escludibile a priori che in qualche cantina del Maryland ci sia qualche sociopatico che, dopo aver passato la sua infanzia a staccare gambe delle barbie legato ad una catena, abbia sviluppato una violenta forma di misoginia totalitaria e aspetti solo di essere liberato per uccidere una donna qualunque, ma l’incidenza di serial killer di questo tipo non può che essere ultra minoritaria nel novero delle statistiche, ammesso e non concesso che in Italia esistano casi del genere.
La definizione di “femminicidio” come omicidio di donna in quanto donna è quindi irricevibile. E questo sarebbe vero anche se ci fosse un’effettiva emergenza statistica riguardo gli omicidi con vittima delle donne.
Il problema però ha poca importanza quando si decide di usare una parola come un’arma virale.
Per questo “femminicidio” non è una parola scelta a caso.
L’ex consigliere della difesa statunitense Zbigniew Brzezinski sostiene che il termine “Guerra al terrore” fu creato esplicitamente per
“Oscurare la ragione, intensificare le emozioni e rendere più semplice per i politici demagogici mobilitare l’opinione pubblica a nome delle politiche che vogliono perseguire”
Allo stesso modo il termine “femminicidio” va inteso come la punta di diamante di una narrazione di emergenza, pronta per metterci davanti un # e diventare l’hastag sotto cui riunire ogni tipo di violenza alle donne, anche quelle che con l’omicidio non hanno nulla a che fare.
Il fatto che nessuno uccida una donna solo perché è una donna passa, nella logica dell’emergenza, del tutto in secondo piano.
La seconda accezione vagamente meno oltranzista è quella che definisce il femmincidio come l’omicidio di donne compiuto da parenti, ex partner o uomini che le donne conoscono.
Bene se così è, come effettivamente è per una parte degli omicidi che hanno come vittima una donna, allora non c’è nessun bisogno di inventarsi una parola nuova come “femminicidio” né di ventilare aggravanti riservate esclusivamente alle vittime di sesso femminile.
Questo perché un’aggravante del genere sarebbe palesemente anti costituzionale per chi non considera la legge fondamentale dello stato come un comodo gadget da usare esclusivamente nelle manifestazioni contro Berlusconi.
Art. 3 della Costituzione italiana ( uno dei miei preferiti):
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.
Basta applicare le norme esistenti riguardanti gli omicidi come le aggravanti generiche del codice penale:
61 n. 1 “aver agito per motivi abietti o futili”
61 n. 4 “aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone”
61 n. 5 “avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”
61 n. 11 “avere commesso il fatto con abuso di autorità o relazioni domestiche [...] di coabitazione”

Poi ci sono le aggravanti specifiche dei casi di omicidio:
Art. 577
b. Mezzo insidioso
e. rapporto di coniugo
g.motivi abbietti e futili
Oltre a questo c’è la legge 612 bis sullo stalking.
Un quadro normativo già decisamente articolato ma quand’ora il legislatore lo ritenesse inadeguato andrebbero pensate nuove aggravanti che siano configurabili senza distinzione di sesso o di razza. Sempre per quella cosina lì… la Costituzione.
2.3 IL PARADOSSO DEL CREARE UN’EMERGENZA FEMMINILE CHE NON C’È IN UN PAESE TREMENDAMENTE MASCHILISTA
La cosa veramente incredibile di questa bolla mediatica è che certifica, se ce ne fosse ancora bisogno, il fallimento su tutta la linea della comunicazione della sinistra italiana.
Questo perché si è preferito creare una bolla mediatica su un’emergenza che non c’è piuttosto che parlare delle emergenze reali che affliggono la condizione femminile nel nostro paese.
Come, cioè, se non ne esistessero.
Questo non è successo per caso, il bubbone questione femminile in uno dei paesi più retrogradi d’Europa era destinato a scoppiare, perché allora non incanalarlo dentro un tema che non tocca la stragrande maggioranza delle donne?
A stare larghi ogni anno vengono assassinate 150 donne, di questi omicidi poco più della metà possono essere ascrivibili a femminicidi nella sua accezione più soft (vittime di uomini che conoscono); facciamo anche qui per eccesso 80 donne l’anno. Un fenomeno grave senza dubbio, ma i problemi che le 30milioni e 700mila donne affrontano quotidianamente?
Perché non parlare invece delle intollerabili differenze di salario fra uomini e donne che svolgono la stessa mansione?
Beh ma è ovvio: agli editori come a tutti gli altri ricchi fa comodo pagare di meno le donne.
Vogliamo parlare degli asili nido pubblici, dei trasporti pubblici per gli studenti, dei sussidi familiari per figli, dei permessi di paternità che permettano di ripartire più equamente il lavoro nelle famiglie?
Per carità di dio!
Perché non parlare del modo in cui vengono rappresentate le donne dai media nel nostro paese?
La triste realtà dei fatti è che l’industria mediatica e culturale italiana ha un rapporto ambiguo e strumentale con le donne.
2.4 LA CATTIVA COSCIENZA DEI GIORNALI ITALIANI: VA BENE PURCHÉ TIRI
I giornali che hanno creato questa bolla hanno enormi responsabilità deontologiche.
Avendo lavorato come giornalista la cosa non mi stupisce, se avessi un figlio preferirei spalmarlo di pancetta unta e poi abbandonarlo in mezzo a un branco di coyote che lasciarlo solo un redazione di un quotidiano italiano.
La tendenza a ottenere lettori a qualsiasi costo è aumentata esponenzialmente con l’arrivo delle edizioni online.
Più di una volta quando lavoravo per un quotidiano che si dice d’inchiesta mi sono visto rifiutare pezzi sulle infiltrazioni mafiose nel nord Italia mentre in home andavano le dichiarazioni dell’ultimo consigliere comunale del m5s sulle mense scolastiche.
Spiegazione del capo: quello è il tema del momento e fa visualizzazioni, la mafia no.
Se cercate un manuale di deontologia giornalistica del 2013, eccolo: è la frase qua sopra.
Ho smesso di lavorare per questi signori quando dopo avergli portato le prove di una truffa fiscale di svariati miliardi (miliardi) di euro che aveva comportato anche la perdita di migliaia di posti di lavoro, mi sono sentito rispondere:
“Fai duemila battute per un inserto”
“È stato un piacere lavorare per voi”
Così funziona il giornalismo in questo paese, fonde perennemente commento e cronaca e cavalca le emergenze che crea come giumente sotto anabolizzanti finché non le abbandona riverse sulla strada e passa ad altro.
Non mi ha stupito quindi vedere come i quotidiani italiani si siano fatti tutti la loro bella sezione “femminicidio” sui siti senza neppure pensare a fare un po’ di sano fact checking.
Vedo gli occhi dei capi redattori sfarfallare nel buio mentre pensano
“Milioni di contatti!”
Gli articoli su femminicidio poi sembrano quasi tutti scritti con lo stampino: grande uso di immagini retoriche e violente, statistiche metodologicamente inconsistenti e tante tantissime frasi ad effetto. Pura comunicazione emozionale, abolizione dei se e dei ma, toni ultimativi, appelli alla creazione di norme speciali, task force. Se provate a levare la parola femminicidio e sostituirla con parole come “terrorismo islamico” o “immigrazione clandestina” vedrete che diventano identici agli articoli di Libero e Il Giornale che per anni abbiamo giustamente denigrato.
Questa volta il contenuto è giusto ma la struttura retorica che lo circonda è fallace e menzognera.
2.5 Il RAPPORTO STRUMENTALE DELL’INDUSTRIA CULTURALE CON LE DONNE
Da un lato la fazione di destra (tutto in Italia funziona a fazioni, clan e famiglie, figuriamoci l’industria culturale) promulga da anni l’idea della donna oggetto
Dall’altra la fazione di sinistra grazie alla quale, visto che nei reparti marketing delle case editrici dicono che solo le donne di mezz’età leggono ancora e gli editor non conoscono la storia del cane che si morde la coda, 2/3 delle nuove uscite in libreria vi parleranno di donne indomite e coraggiose. C’è cascato persino quello che era il mio autore di noir preferito, che sul tema c’ha sparato pure una quadrilogia, tanto così, per non esagerare
In rete circola la storia del ragazzo che ha mandato un classico del novecento come “Storie di ordinaria follia” di Bukowski a tutte le case editrici e ai maggiori agenti letterari di Italia e se lo è visto rifiutare da TUTTI. Parte della spiegazione sta sicuramente in questo, per gli standard un tanto al chilo di oggi Bukowski sarebbe un autore misogino quindi senza mercato. A nessuno frega realmente un cazzo della condizione femminile in questo paese, ma quando si parla di fetta di mercato sono tutti pronti a produrre gigantesche markette.
Perché in fondo tu non conti ma i tuoi soldi ci piacciono.
Questo perché in quanto a paraculaggine il nostro Pase non è secondo a nessuno.
Tra l’altro faccio notare che l’idea che a una donna possa piacere solo un prodotto che parla in termini entusiastici delle donne è una delle prese di posizione più maschiliste e paternaliste che possano esistere.
Temo che nessuno mi farà mai curare una collana! Il Corriere della Sera invece ha prodotto questa serie, se vogliamo chiamarla così, di Ivan Cotroneo che accarezza sulla testa le madri abbandonate dalla società italiana, prive di servizi e tutele, ritraendole in un’inoffensiva sorta di slap stick comedy alla melassa. Com’è difficile essere donne, ma ridiamoci sopra e lasciamo tutto come prima! Anzi magari compiacciamoci di non essere vittime di femminicidi e stiamo zitte
La rappresentazione femminile nel nostro paese oscilla fra due poli senza vie intermedie:
stupido paralume con possibili utilizzi sessuali / paladina incorruttibile piena di ogni virtù e senza macchia alcuna.
Bisogna aver il coraggio di dire che entrambe le definizioni sono inaccettabili.
Le donne sono esseri umani e in quanto tali hanno i loro pregi e i loro difetti, come tutti.
Ed esattamente come tutti le donne hanno diritto a vivere la loro vita senza discriminazioni di sorta, senza essere sottoposte a violenze fisiche e psicologiche e senza essere obbligate da uno Stato largamente inefficiente e da compagni retrogradi a farsi carico di molto più lavoro degli altri, spesso con retribuzioni più basse.
Questi sono i punti su cui bisogna lavorare, con pragmatismo ed efficienza, non con bolle di cui fra tre mesi nessuno parlerà più.
Ti ricordi quando si parlava continuamente di femminicidio?
Ah sì, faceva caldo

2.6 I CARATTERI PECULIARI DELLA BOLLA MEDIATICA FEMMINICIDIO
La cosa più inquietante della bolla mediatica del femminicidio è che certifica come probabilmente per la prima volta l’universo politico di sinistra abbia sdoganato, con una nonchalance che fa venire i brividi, le strategie comunicative tipiche della destra conservatrice.
Ha portato avanti sui giornali e sulle televisioni la rappresentazione di un fenomeno sociale come emergenza in crescita esponenziale in totale spregio dei dati reali e, cosa ancora più grave, ha avallato un ricatto morale per cui chi chiedeva realmente conto di questa bolla mediatica si schierava automaticamente sul lato degli uomini che compiono violenza sulle donne.
Ancora una volta: un’equazione inaccettabile.
Compito di una sinistra che possa dirsi tale non è solo portare avanti i suoi valori (come ad esempio la parità fra i sessi) ma farlo anche attraverso un dibattito pubblico che rispetti i requisiti di verità dei dati e di dialogo fra le parti, accetti il confronto e si muova sulle ali di una ragione (sfaccettata, multiforme e composita) e non su quelle dell’emozione che cancella il dibattito e la realtà dei fatti per sostituirli con slogan emozionali (apparentemente condivisibili) ma che nascondono pesanti contraddizioni; comportamento questo che è sempre stato prerogativa delle destre da quando esistono le democrazie di massa.
Nel caso specifico della bolla del femminicidio le gravi contraddizioni nascoste sotto l’ondata di emozione sono state:
  1. L’indifferenza verso i dati e la confusione dei piani del discorso. Non esiste alcuna emergenza omicidi femminili, e sotto il cappello di “femminicidio” è finito di tutto e di più. Una confusione informativa inaccettabile e controproducente, che finisce per non restituire un quadro reale di un fenomeno pur non avendo il carattere dell’emergenza, è grave e va affrontato.
  2. Le soluzioni proposte. Un’aggravante che si applichi esclusivamente alle vittime donne sarebbe palesemente anticostituzionale. Che in pochi si siano alzati per dirlo è spiegabile con il timore dell’ostracismo che genera la narrazione d’emergenza in chi la riconosce come tale, oltre che con il fatto che molti dei soggetti che influenzano l’opinione pubblica approfondiscono molto poco gli argomenti di cui si occupano. È molto più comodo avallare la tendenza dominante, consegnare il pezzo e andare a giocare a tennis con gli amici.
Che la sinistra possa cadere mani e piedi dentro una narrazione d’emergenza con tratti così populistici e falsificanti lo si può spiegare solo in due modi
  1. Il populismo è diventato la forma primaria del dibattito pubblico nel nostro paese, grazie soprattutto alle nuove tecnologie che fondono in maniera inscindibile e pervicace le emozioni con le argomentazioni politiche.
La storia ci ha già insegnato dove porta la sovrapposizione sistematica di questi piani, ma sembriamo non aver imparato granché.
  1. Molti esponenti della sinistra (sulla destra stendiamo un velo pietoso), e mi duole dirlo soprattutto quelli più giovani, non sembrano avere la forma mentis necessaria per affrontare problemi complessi e snidare la semplificazione là dove si annida: nella comunicazione virale.
Esemplare da questo punto di vista è stata la sonora lezione impartita da Rodotà (fino al giorno precedente idolo degli attivisti) alla Boldrini sul tema della censura del web, un altro argomento affrontato attraverso una narrazione dell’emergenza, e perciò a cazzo di cane. Rodotà, uomo anziano e quindi come spesso capita in possesso di un solido apparato interpretativo, ha spiegato candidamente alla Boldrini che le leggi sulla diffamazione sono più che sufficienti, tutto sta nell’applicarle. Ogni tanto emergono nel dibattito questi vecchi che hanno ancora la lucidità, la calma e l’autorità per dire:
“Ragazzi, staccatevi da twitter e vedete di ragione con freddezza, stiamo parlando di leggi dello Stato, non di gattini che suonano il piano su youtube”.
In quei momenti, vi giuro, vorrei essere vecchio anche io.
Mi chiedo in tutto questo che cazzo stia facendo Vendola, l’unico uomo politico in questo paese che ha provato a riportare un po’ di complessità all’interno del discorso politico.
Come può tollerare che un esponente di spicco del suo partito ogni volta che apre bocca si esprima per slogan e fomenti narrazioni d’emergenza?
Il mio timore è che sia caduto nel ricatto dello scopo superiore. Ma…
2.7 IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI
Non puoi raccontare una storia che non è vera per raggiungere fini buoni
Questo perché:
Se avvalli un modo di pensare che non tiene conto dei dati oggettivi perdi ogni credibilità.
Se distruggi la credibilità dell’informazione oggi, non puoi pretendere di essere ascoltato domani.
Se cavalchi l’emozione invece che stimolare il ragionamento, il giorno che avrai bisogno di fare analisi complesse (realisticamente ogni giorno) chi starà ad ascoltarti?
Se avvalli la logica dell’emergenza avvalli anche quella dell’autorità autoreferenziale, la logica della sparata, della demagogia e della soluzione più semplice, anche quando è ingiusta.
Se non rispetti il principio di uguaglianza di fronte alla legge proponendo una discriminazione basata sul sesso (anche se per scopi giusti) stai ferendo la costituzione al cuore.
Sono altri gli strumenti su cui si puntare per difendere le donne dalla violenza: certezza della pena, investimenti nel sistema educativo, finanziamenti alle associazioni, campagna di opinioni contro la violenza e se si ritengono necessarie anche nuove aggravanti ma a patto che siano configurabili sia per le vittime donne che per quelle che sono uomini.
I principi si chiamano principi proprio perché devono orientare il tuo agire sempre, non puoi discriminare per non discriminare. La discriminazione positiva si basa su un assurdo logico e non è un metodo accettabile per una sinistra il cui respiro e progettualità vadano oltre questo week end.
La sinistra deve tenere ugualmente a cuore i propri obiettivi e i mezzi con cui raggiungerli.
Le scorciatoie non esistono.
Esiste la buona comunicazione (quella che il Pd manco sa dove stia di casa) ma la bolla del femminicidio non è buona comunicazione, è una bolla mediatica intrisa di misandria latente che mette nell’ombra i veri problemi della questione femminile in questo paese.
Devo ringraziamento per questo post alle mie agguerrite e preziosissime consulenti legali Rosaria, Eleonora, Sara e Cristina. Un grande grazie al anche al mio fido correttore di bozze Claudio che ha fatto un gran lavoro, come sempre.

Fonte: www.quitthedoner.com
Link: http://www.quitthedoner.com/?p=1716&utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=femminicidio-la-bolla-mediatica-di-ultima-generazione-deconstructing-italy-01
23.05.2013

Nessun commento:

Posta un commento