Fra mito dei «nativi digitali» e pressioni delle lobby dell’information technology
Ciò
di cui siamo testimoni, ci piaccia o no, è il fatto che un’intera
civiltà sta franando, un’intera tradizione storica, culturale e
pedagogica è prossima a smarrirsi e a perdersi. In tale scenario, che si
può definire come apocalittico in senso etimologico, la digitalizzazione
dell’insegnamento è la falsa soluzione a un problema reale, ma mal
posto: quello del calo esponenziale delle competenze culturali di base
dei nostri studenti. Non solo l’informatizzazione dei processi didattici
non risolverà i problemi della scuola, ma li aggraverà, rendendoli al
contempo irriconoscibili e coprendoli con una cortina di fumosità
ideologiche e pseudo-pedagogiche sempre più fitta. Ci proponiamo in
questo breve saggio due scopi: analizzare le radici politiche della
svolta verso la «scuola digitale»; mostrare, in secondo luogo, la
vacuità, l’insensatezza e la dannosità della digitalizzazione della scuola e dei libri di testo in particolare.
L’influenza dell’Europa unita
Innanzitutto
occorre ricordare due elementi di fondo decisivi: il primo è che tutte
le decisioni ministeriali a cui assistiamo in questo campo non sono il
parto autonomo del governo italiano, ma piuttosto l’applicazione di
precise direttive provenienti dai diversi organismi istituzionali
dell’Unione Europea. Siamo, anche in questo campo, di fronte a un
esempio di perdita della sovranità nazionale non poco significativo:
infatti un paese che perde il potere di organizzare, dirigere e
migliorare autonomamente il suo sistema di istruzione e formazione
rischia di smarrire, nel medio-lungo periodo, competenze essenziali per
restare competitivo anche sul piano industriale, organizzativo, politico
e militare. In altre parole lasciar parassitare il proprio sistema di
istruzione da cattivi principi e ancor più negative metodologie può
significare la rovina per un paese.
Bisogna far notare anche due
altre cose. In primo luogo che la stessa Unione Europea non è un
organismo disincarnato e caritatevole i cui funzionari pensano al bene
dei popoli europei in modo disinteressato, come alcuni ingenui si
ostinano a credere, ma la cinghia di trasmissione delle grandi banche e
delle multinazionali che, occorre ricordarlo, tengono a Bruxelles
qualcosa come 15.000 lobbysti, il cui unico scopo è premere perché
vengano introdotte norme che direttamente, o indirettamente, favoriscano
le loro aziende di riferimento. Il volto segreto delle istituzioni
dell’Unione Europea è quello di una dittatura del grande capitale
finanziario su popoli e su stati ormai largamente privati della loro
sovranità nazionale e alla mercé di norme decise a Bruxelles in modo del
tutto opaco, quando non oscuro, da anonimi funzionari e commissari non
eletti da nessuno. Si potrebbero fare mille esempi di norme che non
hanno altro fine se non quello di dissolvere il ruolo dello stato e di
sottoporre a una gestione usuraia e lucrativa beni che per loro natura
dovrebbero essere sottratti a questa (come l’acqua potabile, ad
esempio).
È evidente che alle spalle di tutta l’attuale pressione
per passare alla scuola digitale ci sono anche i pesantissimi interessi
delle multinazionali dell’information technology e del software,
alle quali non sembra vero di poter mettere le mani sul grande boccone
delle scuole pubbliche, con forniture colossali di prodotti garantite
per anni e sanzionate ope legis, neppure bisognose di marketing o di grossi sforzi pubblicitari.
Veniamo
all’incidenza delle pressioni europee sulle leggi italiane, riferite in
particolare al manuale scolastico. La legge più importante in questo
contesto è il D.L. n. 41 dell’8 aprile 2008 (tradottosi poi nella legge
n. 133 del 6/8/2008), che nell’Allegato 1 chiarisce le «Caratteristiche tecniche e tecnologiche dei libri di testo».
In tale allegato viene stabilito che «A partire dall’anno scolastico 2011-2012 non potranno più essere adottati (per il successivo anno scolastico)
testi scolastici redatti esclusivamente nella versione cartacea, con
l’opportuna flessibilità di utilizzo, in particolare, per le prime
classi della scuola primaria. Il passaggio al testo digitale consente
infatti di accrescere la funzionalità dei libri di testo di forma
tradizionale e di arricchire di nuove funzionalità (comparazione, gestione delle informazioni) gli
ambienti di apprendimento. A sua volta il testo in forma mista
favorisce la possibilità di accedere a schede o testi di approfondimento
, tramite appositi link».
L’articolo 3 della Circolare Ministeriale n. 16 del 10 febbraio 2009 specifica che: «Lo
sviluppo incessante e progressivo delle tecnologie investe oggi tutti
gli aspetti della vita sociale e produttiva e va modificando i processi
di costruzione e di trasmissione della conoscenza. La scuola, che è il
luogo privilegiato per un insegnamento connesso alla memoria come
all’innovazione, non può non far interagire
in modo dinamico il proprio tradizionale patrimonio di strumenti con
quelli –sempre più diffusi e in continua evoluzione- offerti dalle nuove
tecnologie» (sott. nostre). Si noti come si dia ancora una volta
come scontato ciò che scontato non è affatto, ovvero che la scuola debba
cambiare metodi e contenuti in quanto sono presenti le «nuove
tecnologie».
Il mito pernicioso della scuola digitale
Bisogna qui osservare che l’attuale deriva era in realtà già stata annunciata fin dal documento dei «Quaranta saggi»
(rivelatisi poi tutt’altro che saggi) comparso negli anni Novanta e
distrutto, sul piano logico e metodologico, nello splendido e
attualissimo volumetto del prof. Russo, divenuto giustamente celebre: Segmenti e bastoncini.
Il prof. Russo aveva già mostrato come si stesse progettando, sotto la
guida del famoso Maragliano, una nuova scuola tutta basata su
informatica e multimedialità, videogiochi e rappresentazioni grafiche,
abolizione della cultura classica e alleggerimento dei contenuti delle
discipline, all’insegna di una generale deconcettualizzazione e
deverbalizzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento, che non doveva
più presentare alcun contenuto astratto e non immediatamente intuitivo.
Questa scuola –la scuola del primato della socializzazione, invasa da
psicologi e da pedagogisti- è una scuola che deve preparare un esercito
di consumatori e di cittadini obbedienti e passivi, privi di senso
critico e di cultura, facilmente manipolabili, psicologicamente
involuti, sradicati dalla loro lingua, dalla loro nazione, dalla loro
terra, privi di qualsiasi consapevolezza e memoria storica, ignari ormai
anche solo del significato dell’espressione «amor di patria».
Si sta, in altre parole, progettando la formazione dei futuri, convinti sudditi di un mondo ridotto a repubblica universale anarchica e caotica, dove sarà globalizzato innanzitutto il vuoto delle menti e dei cuori.
Il manuale digitalizzato: per una valutazione critica
Occorre
ora affrontare il problema dei manuali scolastici di nuova concezione,
che la legge vuole solo in parte cartacei, dovendo avere necessariamente
una parte allocata su CD-room o su siti dell’editore, in altre parole
digitalizzati. Le motivazioni avanzate, oltre a riprendere quelle sopra
citate per giustificare la scuola digitale, sono fondate sull’idea che
il manuale digitale, almeno in parte, dovrebbe ridurre notevolmente i
costi dell’acquisto dei manuali (si stima di un 30 %). Naturalmente non
si considera, in questa prospettiva, il costo della stampa domestica
delle pagine che si trovano solo in versione digitale, stampa che
rappresenta un costo molto superiore a quello di un volume a stampa
«industriale» di eguale numero di pagine.
Partiamo dallo smontaggio del concetto che sta alla base di tutta questa tematica: il concetto di «nativo digitale».
Come noto si allude con questa espressione a ragazzi abituati fin da
piccoli, e nella fattispecie fin dall’età prescolare o della scuola
materna, a manipolare apparecchiature elettroniche, a fruire molte ore
di televisione al giorno, a giocare col computer, a utilizzare
telefonini cellulari, playstation, videogiochi, MP3, e-book, e
quant’altro l’industria dell’information technology e
dell’intrattenimento sforna a ritmi vertiginosi; insomma il «nativo
digitale» è un bambino o un ragazzo abituato precocemente a connettersi
ad Internet, a navigare, a utilizzare ogni possibile strumento
elettronico. La tesi è che questi nuovi bambini e ragazzi ne sappiano
spesso molto di più dei genitori e degli insegnanti su queste cose,
siano più abili a muoversi sulla rete, abbiano insomma competenze e
informazioni già consolidate e relativamente avanzate. Di fronte a
giovani così «moderni» e al passo con i tempi sembrerebbe impossibile
proporre una didattica tradizionale, fondata sulla lezione frontale, sul
dialogo euristico in classe, sulla composizione scritta del tema di
italiano o sulla soluzione basata sul calcolo a mano di astratti
problemi geometrico-matematici; tanto meno si pensa di poter proporre
loro un manuale tradizionale basato su pagine e pagine da leggere e
acquisire con uno sforzo mnemonico ritenuto passivizzante.
Facciamo
una breve valutazione critica del modello che si sta cercando di
imporre. Innanzitutto bisogna osservare che l’uso che fanno i giovani
degli strumenti e delle risorse digitali citati è per lo più legato allo
svago e al divertimento, quando non si è di fronte a vere e proprie
attività immorali o moralmente discutibili, e li vede ridotti in
sostanza al rango di consumatori del tutto passivi e, per lo più,
fortemente dipendenti da questo consumo quasi bulimico di telefonini,
social network e videogiochi. L’iperstimolazione sensitiva e
immaginativa e la forte seduttività legata a queste modalità di
comunicazione e di divertimento fanno sì che spesso per i genitori sia
molto difficile allontanare i figli, anche solo per brevi momenti, dal
computer o dai videogiochi e crea le condizioni perché sia praticamente
impossibile per questi giovani riuscire a concentrarsi sui libri e sullo
studio o seguire con profitto le lezioni in classe. Si aggiunga inoltre
che un recente sondaggio (recensito su Avvenire dell’11 maggio
2012) sottolinea come il 68 % dei tredicenni abbia un computer con
collegamento a Internet in camera e il 61 % anche una televisione
personale. Di fatto i due strumenti sono spesso al di fuori di ogni
controllo parentale e come inevitabile conseguenza sta aumentando
esponenzialmente il numero degli adolescenti che sono consumatori
abituali di pornografia e altro materiale estremo, con tutte le
conseguenze morali, cognitive, psicopatologiche e comportamentali che ne
conseguono. Non si può infatti dimenticare che già oggi circa il 35 %
del materiale scaricato da Internet è materiale pornografico. Ora è una
pura illusione pensare che spingere i ragazzi a utilizzare più computer
anche a scuola e a casa per lo studio sia la soluzione ai problemi del
nostro sistema scolastico, così come è assurdo pensare che si debba
assecondare la loro crescente difficoltà a dedicarsi alla lettura
tradizionale e al rapporto con i libri.
È evidente infatti che
l’uso del computer, tanto in classe, quanto a casa, è una fonte
impressionante di distrazione e di divagazioni poco controllabili, basta
a dimostrarlo lo studio statistico dell’indice di permanenza su un
sito: quando si arriva a tempi di 5 o 7 minuti consecutivi senza passare
a un altro sito siamo già ai vertici di durata; il che sta a
significare che il rapporto con la Rete è estremamente fugace, liquido,
indeterminato, del tutto slegato dalle dinamiche che favoriscono una
profonda concentrazione intellettuale e la formazione di una vera
cultura.
Bisogna anche sottolineare l’inutilità del pretendere di
insegnare ai bambini o ai giovani a usare il computer: le statistiche
citate poco prima e lo stesso, tanto sbandierato, concetto di «nativi
digitali» sono in sé la dimostrazione che i giovani di oggi sanno già
fin troppo bene, e fin troppo presto, utilizzare questi strumenti: non è
certo a scuola che imparano a utilizzarli.
Semmai è proprio la
massiccia quantità di ore spese dalla più tenera infanzia davanti alla
televisione o ai videogiochi che sta facendo crollare la capacità di
bambini e giovani di leggere, di scrivere, di risolvere problemi
matematici anche elementari, di rimanere concentrati durante le ore di
lezione.
Né va dimenticato che l’informatizzazione selvaggia
dell’insegnamento svuota del suo senso residuo la figura del docente,
che entro non troppi anni sarà ridotto a tutor e «facilitatore di
processi di apprendimento» in aule totalmente informatizzate con lezioni
fruite on line, privando così gli studenti dell’unica cosa
importante che la scuola custodiva per loro: la possibilità cioè di
incontrare persone adulte, specialiste di una disciplina, disposte a
dedicare il loro tempo e il loro sapere ai discenti, a rispondere alle
loro domande, a presentare in modo critico la realtà storica e
l’attualità, capaci non solo di trasmettere una materia, ma soprattutto
di svolgere un autentico compito educativo e di testimoniare, spesso, un
profondo amore per la cultura.
Il manuale digitale «a metà»,
attualmente obbligatorio per legge, non ci vuole molto a capire che ben
presto diventerà del tutto on line, con una lunga serie di
conseguenze negative. Il manuale cartaceo è comodo: lo sposto ovunque,
lo metto in uno zaino, lo porto sotto l’ombrellone, non ha problemi di
connessione e di batterie scariche, normalmente non viene rubato, rimane
stabilmente, magari per tutta la vita, anche dopo la scuola, come
ricordo e come fonte sempre consultabile, veicolante una storia e
un’identità personale. Quale impersonalità, per converso, in un manuale
on line, che quando il computer è spento non è consultabile, che di
sicuro non si torna a sfogliare dopo la scuola, che non reca i disegnini
e le sottolineature che personalizzano un libro di testo tradizionale,
che non posso prestare a un amico o a un figlio. Va anche osservato che i
libri cartacei sono accessibili anche se mi si rompe l’hard disk del
computer, anche in caso di black-out elettrico, anche nel caso di non
accessibilità del server della scuola; lo stesso, purtroppo, non può
dirsi del manuale digitale.
Ma in compenso, non si può fare a
meno di notarlo, quale clamoroso affare per le multinazionali
produttrici di notebook e computer, di software e di programmi per
l’educazione digitale! Quale sterminato mercato garantito dalla legge!
Un affarone in tempi di crisi e di crollo del mercato, non c’è dubbio…
Infine l’osservazione più importante ci pare la seguente: il libro
parzialmente, o totalmente, digitale è un assurdo anche solo
semplicemente perché la Rete, Google, Wikipedia, YouTube, Wikimedia,
etc. sono già di per sé un gigantesco manuale digitale di ogni materia
possibile e immaginabile. Con una differenza però: mentre il manuale
digitale è rigido e limitatissimo, il «grande manuale universale» che è
rappresento dalla Rete nella sua globalità è virtualmente illimitato e
sempre più aggiornato. Tanto varrebbe piuttosto che introdurre il
ridicolo manuale per metà digitalizzato, abolire del tutto la necessità
di avere manuali: i professori si limitino a spiegare e gli studenti poi
trovino in rete tutto ciò che loro occorre, senza il bisogno dei
grotteschi link dalla carta al sito dell’editore o dell’autore.
Notiamo fra l’altro che è molto ingenua l’idea che la Rete sia per
forza liberante e capace di dare corso a un processo di costruzione
della conoscenza da parte degli studenti più aperto, creativo e
personale. Al contrario internet è una realtà profondamente omologante e
livellante, e lo si può capire facendo una semplice considerazione su Google,
il tanto celebrato motore di ricerca. Studi recenti mostrano come,
quando si fa una ricerca, il computer di chi la svolge viene
riconosciuto e la selezione ottenuta è coerente con il profilo di
navigatore dell’utente; in altre parole mi escono risultati che io penso
come oggettivi, ma che sono in realtà modellati sul mio profilo
culturale statisticamente censito e catalogato.
Se però quanto
detto è vero, se cioè il manuale digitale è una contraddizione in
termini, in quanto inutile e ridondante rispetto a ciò che la Rete già
offre, a che cosa si dovrà l’insistenza per imporne la digitalizzazione?
Insistiamo, a costo di risultare spiacevoli, che non ci può essere
altra spiegazione se non quella di obbligare tutte le famiglie a
diventare acquirenti, per legge, di personal computer, di software
legato alle attività scolastiche, ma soprattutto di ogni futuro
ritrovato che verrà spacciato come necessario per partecipare alla
grande giostra della scuola digitale.
L’inganno è in fase già
molto avanzata; la nuova barbarie digitale vincerà sicuramente, di
questo si può stare sicuri, ma è importante che qualcuno abbia il
coraggio di chiamare la barbarie col suo nome e di denunciare la
menzogna che ne maschera l’avanzata, camuffandola da progresso.
Sia sul manuale digitale, sia sulla scuola digitale non c’è stata,
invece, nessuna vera ricerca pedagogica, nessun dibattito fra
intellettuali e docenti, nessun approccio rigoroso e scientifico al
problema, nessuna valorizzazione di voci dissidenti. Il Ministero,
circuito da agenzie esterne abili nel fornirgli argomenti
preconfezionati e altisonanti, ha imposto un pensiero unico, una vera e
propria retorica di regime, uno sguardo goffamente ottimistico sul
processo di cui si sta rendendo complice senza nessuna certezza che sia
la strada giusta da imboccare per migliorare la scuola italiana.
Il cuore della nostra analisi critica si può ridurre a questo aspetto :
il discente si può dire che abbia compiuto un cammino completo di
crescita culturale se giunge, alla fine del suo percorso formativo, a
essere in grado di leggere e comprendere criticamente un testo complesso
e astratto in modo completo e ragionevolmente rapido. Questa è la
competenza culturale fondamentale. Ora questa capacità di lettura si
ottiene con un lungo cimento sui libri, sul testo scritto, leggendo e
scrivendo molto, innamorandosi della propria lingua, impadronendosi
lentamente di tutta la sua profondità e ricchezza, frequentando la
grande poesia e la grande letteratura. È dal saper leggere che discende
poi il saper scrivere e parlare, riassumere e sintetizzare, argomentare e
criticare. Anche le materie scientifiche sono debitrici di questa
fondamentale competenza, anche un manuale di fisica esige innanzitutto
di essere letto e compreso, ridotto all’essenziale e seguito nei suoi
snodi logico-argomentativi.
Sviluppare la capacità di lettura
esige raccoglimento, silenzio, ordine, assenza di stimoli troppo forti e
distraenti, abitudine a sostare a lungo nel clima rarefatto ed
essenziale della parola letta rendendola però sempre più viva, intensa e
significativa. Abitudine all’astratto e al difficile, al complesso e a
ciò che non è intuitivo.
L’uso dell’informatica in modo
massiccio a scuola o pone lo studente di fronte a testi in
videoscrittura «classici», simili a quelli che si trovano in un libro
tradizionale, ma con la differenza che li leggo su di uno schermo, dove è
impossibile una lettura prolungata e si ha un affaticamento visivo
considerevole; o pone lo studente di fronte a rappresentazioni non più
logico-discorsive astratte di concetti complessi, mediati
linguisticamente, ma a rappresentazioni intuitive degli stessi concetti,
mediati da rappresentazioni grafiche, animazioni, esemplificazioni,
filmati, immagini. In tale caso rinuncio all’astratto per il concreto,
alla dimostrazione per l’intuizione, alla memoria dei singoli passaggi
di una narrazione o di una dimostrazione, di una catena causale, per una
loro rappresentazione digitale che rende inutile il mio sforzo di
ricordare (non devo più ricordare nulla perché «rivedo» quanto dovrei
ricordare).
Ma come non notare che questo processo di generale
abbandono dell’ordine della parola letta, della memoria, della
dimostrazione e dell’astratto coincide con la rinuncia a una cultura
degna di questo nome, alla edificazione di capacità logiche e
argomentative superiori, coincide con un declino, in ultima istanza, di
ogni autentica capacità di pensiero?
Si potrebbe arrivare a
dire che proprio l’avanzata totalizzante e totalitaria dell’informatica,
dell’elettronica di consumo, della multimedialità in ogni sfera della
vita soggettiva dei giovani e degli adulti, dovrebbe spingerci a
preservare il delicatissimo ambiente rappresentato dallo spazio
scolastico e formativo dalla presenza dell’informatica stessa e della
multimedialità: all’uso degli strumenti informatici bisognerebbe
accedere molto lentamente e gradatamente solo dopo aver raggiunto un
solido possesso delle capacità di base prima ricordate: leggere,
scrivere, parlare, sviluppare calcoli astratti, pensare in modo critico.
Solo un giovane che è in grado di leggere Dante o Guerra e Pace,
di recitare a memoria una lunga poesia in modo profondo ed espressivo,
di dominare con sicurezza e passione i teoremi di Euclide o il calcolo
algebrico dovrebbe iniziare a usare il personal computer.
Proprio oggi che l’informatica e l’elettronica sembrano pronte a
cannibalizzare con voracità crescente ogni spazio del vivere e del
comprendere, del conoscere e del ricordare bisogna avere il coraggio di
proteggere bambini e adolescenti, soggetti in formazione, non ancora
moralmente, spiritualmente e culturalmente compiuti, dal modello
tecnocratico, disumanizzante e alienante della scuola digitale,
e di ricostruire e rafforzare il modello tradizionale della scuola
fondata sul libro cartaceo e sulla lettura dei grandi classici.
Matteo D’Amico
http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&view=article&id=225370:la-catastrofe-del-digitale-nelle-attivita-scolastiche&catid=83:free&Itemid=100021
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