domenica 20 gennaio 2013

La catastrofe del digitale nelle attività scolastiche

Fra mito dei «nativi digitali» e pressioni delle lobby dell’information technology
Ciò di cui siamo testimoni, ci piaccia o no, è il fatto che un’intera civiltà sta franando, un’intera tradizione storica, culturale e pedagogica è prossima a smarrirsi e a perdersi. In tale scenario, che si può definire come apocalittico in senso etimologico, la digitalizzazione dell’insegnamento è la falsa soluzione a un problema reale, ma mal posto: quello del calo esponenziale delle competenze culturali di base dei nostri studenti. Non solo l’informatizzazione dei processi didattici non risolverà i problemi della scuola, ma li aggraverà, rendendoli al contempo irriconoscibili e coprendoli con una cortina di fumosità ideologiche e pseudo-pedagogiche sempre più fitta. Ci proponiamo in questo breve saggio due scopi: analizzare le radici politiche della svolta verso la «scuola digitale»; mostrare, in secondo luogo, la vacuità, l’insensatezza e la dannosità della digitalizzazione della scuola e dei libri di testo in particolare.



L’influenza dell’Europa unita

Innanzitutto occorre ricordare due elementi di fondo decisivi: il primo è che tutte le decisioni ministeriali a cui assistiamo in questo campo non sono il parto autonomo del governo italiano, ma piuttosto l’applicazione di precise direttive provenienti dai diversi organismi istituzionali dell’Unione Europea. Siamo, anche in questo campo, di fronte a un esempio di perdita della sovranità nazionale non poco significativo: infatti un paese che perde il potere di organizzare, dirigere e migliorare autonomamente il suo sistema di istruzione e formazione rischia di smarrire, nel medio-lungo periodo, competenze essenziali per restare competitivo anche sul piano industriale, organizzativo, politico e militare. In altre parole lasciar parassitare il proprio sistema di istruzione da cattivi principi e ancor più negative metodologie può significare la rovina per un paese.

Bisogna far notare anche due altre cose. In primo luogo che la stessa Unione Europea non è un organismo disincarnato e caritatevole i cui funzionari pensano al bene dei popoli europei in modo disinteressato, come alcuni ingenui si ostinano a credere, ma la cinghia di trasmissione delle grandi banche e delle multinazionali che, occorre ricordarlo, tengono a Bruxelles qualcosa come 15.000 lobbysti, il cui unico scopo è premere perché vengano introdotte norme che direttamente, o indirettamente, favoriscano le loro aziende di riferimento. Il volto segreto delle istituzioni dell’Unione Europea è quello di una dittatura del grande capitale finanziario su popoli e su stati ormai largamente privati della loro sovranità nazionale e alla mercé di norme decise a Bruxelles in modo del tutto opaco, quando non oscuro, da anonimi funzionari e commissari non eletti da nessuno. Si potrebbero fare mille esempi di norme che non hanno altro fine se non quello di dissolvere il ruolo dello stato e di sottoporre a una gestione usuraia e lucrativa beni che per loro natura dovrebbero essere sottratti a questa (come l’acqua potabile, ad esempio).

È evidente che alle spalle di tutta l’attuale pressione per passare alla scuola digitale ci sono anche i pesantissimi interessi delle multinazionali dell’information technology e del software, alle quali non sembra vero di poter mettere le mani sul grande boccone delle scuole pubbliche, con forniture colossali di prodotti garantite per anni e sanzionate ope legis, neppure bisognose di marketing o di grossi sforzi pubblicitari.

Veniamo all’incidenza delle pressioni europee sulle leggi italiane, riferite in particolare al manuale scolastico. La legge più importante in questo contesto è il D.L. n. 41 dell’8 aprile 2008 (tradottosi poi nella legge n. 133 del 6/8/2008), che nell’Allegato 1 chiarisce le «Caratteristiche tecniche e tecnologiche dei libri di testo».

In tale allegato viene stabilito che «A partire dall’anno scolastico 2011-2012 non potranno più essere adottati (per il successivo anno scolastico) testi scolastici redatti esclusivamente nella versione cartacea, con l’opportuna flessibilità di utilizzo, in particolare, per le prime classi della scuola primaria. Il passaggio al testo digitale consente infatti di accrescere la funzionalità dei libri di testo di forma tradizionale e di arricchire di nuove funzionalità (comparazione, gestione delle informazioni) gli ambienti di apprendimento. A sua volta il testo in forma mista favorisce la possibilità di accedere a schede o testi di approfondimento , tramite appositi link».

L’articolo 3 della Circolare Ministeriale n. 16 del 10 febbraio 2009 specifica che: «Lo sviluppo incessante e progressivo delle tecnologie investe oggi tutti gli aspetti della vita sociale e produttiva e va modificando i processi di costruzione e di trasmissione della conoscenza. La scuola, che è il luogo privilegiato per un insegnamento connesso alla memoria come all’innovazione, non può non far interagire in modo dinamico il proprio tradizionale patrimonio di strumenti con quelli –sempre più diffusi e in continua evoluzione- offerti dalle nuove tecnologie» (sott. nostre). Si noti come si dia ancora una volta come scontato ciò che scontato non è affatto, ovvero che la scuola debba cambiare metodi e contenuti in quanto sono presenti le «nuove tecnologie».

Il mito pernicioso della scuola digitale


Bisogna qui osservare che l’attuale deriva era in realtà già stata annunciata fin dal documento dei «Quaranta saggi» (rivelatisi poi tutt’altro che saggi) comparso negli anni Novanta e distrutto, sul piano logico e metodologico, nello splendido e attualissimo volumetto del prof. Russo, divenuto giustamente celebre: Segmenti e bastoncini. Il prof. Russo aveva già mostrato come si stesse progettando, sotto la guida del famoso Maragliano, una nuova scuola tutta basata su informatica e multimedialità, videogiochi e rappresentazioni grafiche, abolizione della cultura classica e alleggerimento dei contenuti delle discipline, all’insegna di una generale deconcettualizzazione e deverbalizzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento, che non doveva più presentare alcun contenuto astratto e non immediatamente intuitivo. Questa scuola –la scuola del primato della socializzazione, invasa da psicologi e da pedagogisti- è una scuola che deve preparare un esercito di consumatori e di cittadini obbedienti e passivi, privi di senso critico e di cultura, facilmente manipolabili, psicologicamente involuti, sradicati dalla loro lingua, dalla loro nazione, dalla loro terra, privi di qualsiasi consapevolezza e memoria storica, ignari ormai anche solo del significato dell’espressione «amor di patria».

Si sta, in altre parole, progettando la formazione dei futuri, convinti sudditi di un mondo ridotto a repubblica universale anarchica e caotica, dove sarà globalizzato innanzitutto il vuoto delle menti e dei cuori.

Il manuale digitalizzato: per una valutazione critica

Occorre ora affrontare il problema dei manuali scolastici di nuova concezione, che la legge vuole solo in parte cartacei, dovendo avere necessariamente una parte allocata su CD-room o su siti dell’editore, in altre parole digitalizzati. Le motivazioni avanzate, oltre a riprendere quelle sopra citate per giustificare la scuola digitale, sono fondate sull’idea che il manuale digitale, almeno in parte, dovrebbe ridurre notevolmente i costi dell’acquisto dei manuali (si stima di un 30 %). Naturalmente non si considera, in questa prospettiva, il costo della stampa domestica delle pagine che si trovano solo in versione digitale, stampa che rappresenta un costo molto superiore a quello di un volume a stampa «industriale» di eguale numero di pagine.

Partiamo dallo smontaggio del concetto che sta alla base di tutta questa tematica: il concetto di «nativo digitale». Come noto si allude con questa espressione a ragazzi abituati fin da piccoli, e nella fattispecie fin dall’età prescolare o della scuola materna, a manipolare apparecchiature elettroniche, a fruire molte ore di televisione al giorno, a giocare col computer, a utilizzare telefonini cellulari, playstation, videogiochi, MP3, e-book, e quant’altro l’industria dell’information technology e dell’intrattenimento sforna a ritmi vertiginosi; insomma il «nativo digitale» è un bambino o un ragazzo abituato precocemente a connettersi ad Internet, a navigare, a utilizzare ogni possibile strumento elettronico. La tesi è che questi nuovi bambini e ragazzi ne sappiano spesso molto di più dei genitori e degli insegnanti su queste cose, siano più abili a muoversi sulla rete, abbiano insomma competenze e informazioni già consolidate e relativamente avanzate. Di fronte a giovani così «moderni» e al passo con i tempi sembrerebbe impossibile proporre una didattica tradizionale, fondata sulla lezione frontale, sul dialogo euristico in classe, sulla composizione scritta del tema di italiano o sulla soluzione basata sul calcolo a mano di astratti problemi geometrico-matematici; tanto meno si pensa di poter proporre loro un manuale tradizionale basato su pagine e pagine da leggere e acquisire con uno sforzo mnemonico ritenuto passivizzante.

Facciamo una breve valutazione critica del modello che si sta cercando di imporre. Innanzitutto bisogna osservare che l’uso che fanno i giovani degli strumenti e delle risorse digitali citati è per lo più legato allo svago e al divertimento, quando non si è di fronte a vere e proprie attività immorali o moralmente discutibili, e li vede ridotti in sostanza al rango di consumatori del tutto passivi e, per lo più, fortemente dipendenti da questo consumo quasi bulimico di telefonini, social network e videogiochi. L’iperstimolazione sensitiva e immaginativa e la forte seduttività legata a queste modalità di comunicazione e di divertimento fanno sì che spesso per i genitori sia molto difficile allontanare i figli, anche solo per brevi momenti, dal computer o dai videogiochi e crea le condizioni perché sia praticamente impossibile per questi giovani riuscire a concentrarsi sui libri e sullo studio o seguire con profitto le lezioni in classe. Si aggiunga inoltre che un recente sondaggio (recensito su Avvenire dell’11 maggio 2012) sottolinea come il 68 % dei tredicenni abbia un computer con collegamento a Internet in camera e il 61 % anche una televisione personale. Di fatto i due strumenti sono spesso al di fuori di ogni controllo parentale e come inevitabile conseguenza sta aumentando esponenzialmente il numero degli adolescenti che sono consumatori abituali di pornografia e altro materiale estremo, con tutte le conseguenze morali, cognitive, psicopatologiche e comportamentali che ne conseguono. Non si può infatti dimenticare che già oggi circa il 35 % del materiale scaricato da Internet è materiale pornografico. Ora è una pura illusione pensare che spingere i ragazzi a utilizzare più computer anche a scuola e a casa per lo studio sia la soluzione ai problemi del nostro sistema scolastico, così come è assurdo pensare che si debba assecondare la loro crescente difficoltà a dedicarsi alla lettura tradizionale e al rapporto con i libri.

È evidente infatti che l’uso del computer, tanto in classe, quanto a casa, è una fonte impressionante di distrazione e di divagazioni poco controllabili, basta a dimostrarlo lo studio statistico dell’indice di permanenza su un sito: quando si arriva a tempi di 5 o 7 minuti consecutivi senza passare a un altro sito siamo già ai vertici di durata; il che sta a significare che il rapporto con la Rete è estremamente fugace, liquido, indeterminato, del tutto slegato dalle dinamiche che favoriscono una profonda concentrazione intellettuale e la formazione di una vera cultura.

Bisogna anche sottolineare l’inutilità del pretendere di insegnare ai bambini o ai giovani a usare il computer: le statistiche citate poco prima e lo stesso, tanto sbandierato, concetto di «nativi digitali» sono in sé la dimostrazione che i giovani di oggi sanno già fin troppo bene, e fin troppo presto, utilizzare questi strumenti: non è certo a scuola che imparano a utilizzarli.

Semmai è proprio la massiccia quantità di ore spese dalla più tenera infanzia davanti alla televisione o ai videogiochi che sta facendo crollare la capacità di bambini e giovani di leggere, di scrivere, di risolvere problemi matematici anche elementari, di rimanere concentrati durante le ore di lezione.

Né va dimenticato che l’informatizzazione selvaggia dell’insegnamento svuota del suo senso residuo la figura del docente, che entro non troppi anni sarà ridotto a tutor e «facilitatore di processi di apprendimento» in aule totalmente informatizzate con lezioni fruite on line, privando così gli studenti dell’unica cosa importante che la scuola custodiva per loro: la possibilità cioè di incontrare persone adulte, specialiste di una disciplina, disposte a dedicare il loro tempo e il loro sapere ai discenti, a rispondere alle loro domande, a presentare in modo critico la realtà storica e l’attualità, capaci non solo di trasmettere una materia, ma soprattutto di svolgere un autentico compito educativo e di testimoniare, spesso, un profondo amore per la cultura.

Il manuale digitale «a metà», attualmente obbligatorio per legge, non ci vuole molto a capire che ben presto diventerà del tutto on line, con una lunga serie di conseguenze negative. Il manuale cartaceo è comodo: lo sposto ovunque, lo metto in uno zaino, lo porto sotto l’ombrellone, non ha problemi di connessione e di batterie scariche, normalmente non viene rubato, rimane stabilmente, magari per tutta la vita, anche dopo la scuola, come ricordo e come fonte sempre consultabile, veicolante una storia e un’identità personale. Quale impersonalità, per converso, in un manuale on line, che quando il computer è spento non è consultabile, che di sicuro non si torna a sfogliare dopo la scuola, che non reca i disegnini e le sottolineature che personalizzano un libro di testo tradizionale, che non posso prestare a un amico o a un figlio. Va anche osservato che i libri cartacei sono accessibili anche se mi si rompe l’hard disk del computer, anche in caso di black-out elettrico, anche nel caso di non accessibilità del server della scuola; lo stesso, purtroppo, non può dirsi del manuale digitale.

Ma in compenso, non si può fare a meno di notarlo, quale clamoroso affare per le multinazionali produttrici di notebook e computer, di software e di programmi per l’educazione digitale! Quale sterminato mercato garantito dalla legge! Un affarone in tempi di crisi e di crollo del mercato, non c’è dubbio…

Infine l’osservazione più importante ci pare la seguente: il libro parzialmente, o totalmente, digitale è un assurdo anche solo semplicemente perché la Rete, Google, Wikipedia, YouTube, Wikimedia, etc. sono già di per sé un gigantesco manuale digitale di ogni materia possibile e immaginabile. Con una differenza però: mentre il manuale digitale è rigido e limitatissimo, il «grande manuale universale» che è rappresento dalla Rete nella sua globalità è virtualmente illimitato e sempre più aggiornato. Tanto varrebbe piuttosto che introdurre il ridicolo manuale per metà digitalizzato, abolire del tutto la necessità di avere manuali: i professori si limitino a spiegare e gli studenti poi trovino in rete tutto ciò che loro occorre, senza il bisogno dei grotteschi link dalla carta al sito dell’editore o dell’autore.

Notiamo fra l’altro che è molto ingenua l’idea che la Rete sia per forza liberante e capace di dare corso a un processo di costruzione della conoscenza da parte degli studenti più aperto, creativo e personale. Al contrario internet è una realtà profondamente omologante e livellante, e lo si può capire facendo una semplice considerazione su Google, il tanto celebrato motore di ricerca. Studi recenti mostrano come, quando si fa una ricerca, il computer di chi la svolge viene riconosciuto e la selezione ottenuta è coerente con il profilo di navigatore dell’utente; in altre parole mi escono risultati che io penso come oggettivi, ma che sono in realtà modellati sul mio profilo culturale statisticamente censito e catalogato.

Se però quanto detto è vero, se cioè il manuale digitale è una contraddizione in termini, in quanto inutile e ridondante rispetto a ciò che la Rete già offre, a che cosa si dovrà l’insistenza per imporne la digitalizzazione? Insistiamo, a costo di risultare spiacevoli, che non ci può essere altra spiegazione se non quella di obbligare tutte le famiglie a diventare acquirenti, per legge, di personal computer, di software legato alle attività scolastiche, ma soprattutto di ogni futuro ritrovato che verrà spacciato come necessario per partecipare alla grande giostra della scuola digitale.

L’inganno è in fase già molto avanzata; la nuova barbarie digitale vincerà sicuramente, di questo si può stare sicuri, ma è importante che qualcuno abbia il coraggio di chiamare la barbarie col suo nome e di denunciare la menzogna che ne maschera l’avanzata, camuffandola da progresso.

Sia sul manuale digitale, sia sulla scuola digitale non c’è stata, invece, nessuna vera ricerca pedagogica, nessun dibattito fra intellettuali e docenti, nessun approccio rigoroso e scientifico al problema, nessuna valorizzazione di voci dissidenti. Il Ministero, circuito da agenzie esterne abili nel fornirgli argomenti preconfezionati e altisonanti, ha imposto un pensiero unico, una vera e propria retorica di regime, uno sguardo goffamente ottimistico sul processo di cui si sta rendendo complice senza nessuna certezza che sia la strada giusta da imboccare per migliorare la scuola italiana.

Il cuore della nostra analisi critica si può ridurre a questo aspetto : il discente si può dire che abbia compiuto un cammino completo di crescita culturale se giunge, alla fine del suo percorso formativo, a essere in grado di leggere e comprendere criticamente un testo complesso e astratto in modo completo e ragionevolmente rapido. Questa è la competenza culturale fondamentale. Ora questa capacità di lettura si ottiene con un lungo cimento sui libri, sul testo scritto, leggendo e scrivendo molto, innamorandosi della propria lingua, impadronendosi lentamente di tutta la sua profondità e ricchezza, frequentando la grande poesia e la grande letteratura. È dal saper leggere che discende poi il saper scrivere e parlare, riassumere e sintetizzare, argomentare e criticare. Anche le materie scientifiche sono debitrici di questa fondamentale competenza, anche un manuale di fisica esige innanzitutto di essere letto e compreso, ridotto all’essenziale e seguito nei suoi snodi logico-argomentativi.

Sviluppare la capacità di lettura esige raccoglimento, silenzio, ordine, assenza di stimoli troppo forti e distraenti, abitudine a sostare a lungo nel clima rarefatto ed essenziale della parola letta rendendola però sempre più viva, intensa e significativa. Abitudine all’astratto e al difficile, al complesso e a ciò che non è intuitivo.

L’uso dell’informatica in modo massiccio a scuola o pone lo studente di fronte a testi in videoscrittura «classici», simili a quelli che si trovano in un libro tradizionale, ma con la differenza che li leggo su di uno schermo, dove è impossibile una lettura prolungata e si ha un affaticamento visivo considerevole; o pone lo studente di fronte a rappresentazioni non più logico-discorsive astratte di concetti complessi, mediati linguisticamente, ma a rappresentazioni intuitive degli stessi concetti, mediati da rappresentazioni grafiche, animazioni, esemplificazioni, filmati, immagini. In tale caso rinuncio all’astratto per il concreto, alla dimostrazione per l’intuizione, alla memoria dei singoli passaggi di una narrazione o di una dimostrazione, di una catena causale, per una loro rappresentazione digitale che rende inutile il mio sforzo di ricordare (non devo più ricordare nulla perché «rivedo» quanto dovrei ricordare).

Ma come non notare che questo processo di generale abbandono dell’ordine della parola letta, della memoria, della dimostrazione e dell’astratto coincide con la rinuncia a una cultura degna di questo nome, alla edificazione di capacità logiche e argomentative superiori, coincide con un declino, in ultima istanza, di ogni autentica capacità di pensiero?

Si potrebbe arrivare a dire che proprio l’avanzata totalizzante e totalitaria dell’informatica, dell’elettronica di consumo, della multimedialità in ogni sfera della vita soggettiva dei giovani e degli adulti, dovrebbe spingerci a preservare il delicatissimo ambiente rappresentato dallo spazio scolastico e formativo dalla presenza dell’informatica stessa e della multimedialità: all’uso degli strumenti informatici bisognerebbe accedere molto lentamente e gradatamente solo dopo aver raggiunto un solido possesso delle capacità di base prima ricordate: leggere, scrivere, parlare, sviluppare calcoli astratti, pensare in modo critico. Solo un giovane che è in grado di leggere Dante o Guerra e Pace, di recitare a memoria una lunga poesia in modo profondo ed espressivo, di dominare con sicurezza e passione i teoremi di Euclide o il calcolo algebrico dovrebbe iniziare a usare il personal computer.

Proprio oggi che l’informatica e l’elettronica sembrano pronte a cannibalizzare con voracità crescente ogni spazio del vivere e del comprendere, del conoscere e del ricordare bisogna avere il coraggio di proteggere bambini e adolescenti, soggetti in formazione, non ancora moralmente, spiritualmente e culturalmente compiuti, dal modello tecnocratico, disumanizzante e alienante della scuola digitale, e di ricostruire e rafforzare il modello tradizionale della scuola fondata sul libro cartaceo e sulla lettura dei grandi classici.

Matteo D’Amico
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