DI GIANNI PETROSILLO
conflittiestrategie.it
Quando un Paese non è in grado di
esprimere una seria leadership politica e, pertanto, proiettarsi con le
sue idee e visioni peculiari in un mondo in costante evoluzione, quando è
incapace di programmare il suo avvenire, prossimo e lontano, diventa
facile preda degli istinti rapaci degli avvoltoi della finanza e delle
bestie sociali più retrive (industriali, economiche, ideologiche), le
quali assorbono tutte le energie dello Stato distruggendo le ultime
speranze di ripristinare un corso degli eventi più favorevole alla
collettività, mentre ci si trova nel bel mezzo di una tempesta sistemica
globale.
Queste colonie di saprofiti che si chiamano partiti,
sindacati (operai e padronali), cda di banche arraffatrici e di imprese
decotte ed assistite, giornali asserviti, esattori incalliti, burocrati
pervertiti, predicatori inviperiti e razzolatori invertiti, si
moltiplicano nel tessuto connettivo comunitario divorandolo fino
all’osso.
La speculazione, nelle sue diverse forme; lo smantellamento dei circuiti
produttivi; gli inutili sperperi del denaro dei contribuenti nei
settori di precedenti ondate tecnologiche; la rincorsa dei modelli
astratti nella gestione dei conti pubblici; la mancanza di piani di
sviluppo e di rilancio degli investimenti nei comparti trainanti; la
demolizione del welfare state; l’assenza di strategie per aggredire i
mercati più profittevoli; i tentativi di smembramento delle imprese di
punta attraverso svendite mascherate da privatizzazioni (Eni,
Finmeccanica, ecc.); la dismissione delle infrastrutture fondamentali;
l’andare a rimorchio delle altre grandi potenze nelle missioni militari e
nelle scelte geopolitiche; l’adesione acritica alla propaganda mondiale
in materia di condivisione dei processi e armonizzazione delle
decisioni, salvo ritrovarsi ad asseverare risoluzioni unilaterali
preconfezionate da terzi prepotenti; la perdita di privilegi commerciali
e il dissolvimento di canali diplomatici preferenziali (si pensi alla
Libia, all’Iran e, financo, alla Siria, tutti scenari dove prima di
embarghi e conflitti imposti dai nostri partner a primeggiare era lo
Stivale); in breve, ognuna di queste deficienze in un presente di
profonde trasformazioni, genera decadenza nazionale e sottomissione
internazionale.
L’Italia sta morendo per inettitudine propria ed aggressione esterna, ma
nel dibattito elettorale, i partiti e il loro seguito di militanti
osservanti, anziché affrontare i temi urgenti di cui sopra, assumendosi
le necessarie responsabilità, si lanciano in risse furibonde, come gli
ultras alle partite di calcio, riempiendosi di vituperi, che poi sono
strameritati per tutti.
Questa tragica situazione si protrae ormai da un ventennio, da quando la
precedente classe dirigente, democristiana e socialista, fu spazzata
via da un golpe “per procura”, impropriamente chiamato Mani Pulite, con
il quale vennero esautorati tali rappresentanti del popolo,
eccessivamente disinvolti nel maneggiare il potere politico e,
purtuttavia, nient’affatto incompetenti, per far posto agli odierni
impresentabili, ovvero alle seconde file di quegli stessi organismi
mutati esclusivamente nelle sigle, venute alla ribalta per la
falcidiazione del vecchio establishment.
Successivamente all’assalto di magistrati e puritani della legalità (più
spaventati dalla caccia alle streghe che sinceri nel pentimento) agli
assetti della I Repubblica – gli uni e gli altri accortisi sospettamente
“tardi” del presunto letamaio consociativo, al quale dovevano la
carriera o nel quale erano cresciuti professionalmente, ed altrettanto
abili a rifugiarsi repentinamente nello sciocchezzaio giustizialistico e
moralistico corrente, soccorsi, come poi si è saputo, da imboccamenti e
spifferate di servizi stranieri – venne annunciata la necessaria
rifondazione dell’Italia su basi eticamente trasparenti.
Basta guardarsi in giro per constatare lo sbaglio e l’abbaglio.
Adesso, nonostante la sovrabbondanza di onestà e perbenismo, si depreda
più di ieri, si depauperano i cittadini in maniera più famelica, si
frega il prossimo senza ritegno, si dilapidano risorse generali per
misere ragioni di bottega, si consegnano nelle mani di avidi usurai
europei e mondiali le patrie ricchezze, si mettono in saldo i tesori
collettivi per un posto da ministro o da inviato speciale alla corte
delle cerchie globali, si avviliscono le prospettive autonomistiche del
Paese per ottenere l’endorsement forestiero che cresce quanto più si
deprime la nostra sovranità statale.
E ci voleva una rivoluzione a suon di monetine al Raphael e di persecuzioni inquisitorie per arrivare a questo scempio?
La verità è altrove, distante dai luoghi comuni di questi lustri
ignobili e mistificanti. Quel colpo di Palazzo che portò a scoperchiare i
quarantennali metodi tangentari, consociativi, cooptativi e
lottizzatori applicati alla gestione degli affari di stato, di Dc e Psi,
con l’appoggio desistente del PCI, fu il risultato di un mutamento di
scenario globale all’indomani della guerra fredda.
L’Italia perdeva il suo ruolo di bastione avanzato nella lotta al
comunismo al fianco dell’Occidente americanizzato che così intese
sbarazzarsi dei capi e delle correnti eccessivamente compromessi con un
passato superato dagli eventi.
Occorreva rivolgersi ad individui ambiziosi e apparentemente meno
coinvolti col logoro “regime” demosocialista per riportare la Penisola
entro un quadro di rapporti di più largo assoggettamento, politico,
economico e culturale.
L’affermazione unipolare degli Usa, l’unica iperpuissance rimasta sulla
scena, modificò le relazioni tra questa e i suoi satelliti i quali, per
tanto tempo, avevano goduto di una certa tranquillità grazie al fatto di
rappresentare una cintura protettiva verso il blocco sovietico.
Dissoltasi l’URSS e allargatisi i confini dell’impero, in assenza di
concreti nemici esterni (la minaccia islamica è stata una invenzione
delle teste d’uovo Yankees, che ogni tanto sfugge di mano ma che più
spesso risolve intricate questioni periferiche), agli alleati veniva
imposto di partecipare ai maggiori sforzi della Casa Bianca per
mantenere tale supremazia, senza i benefici e le garanzie antecedenti.
Inoltre, questo predominio assoluto, contrariamente a molte previsioni
di Washington, entrerà in crisi in appena un decennio, col riaffacciarsi
sulla scacchiera planetaria di nuovi e antichi protagonisti con
velleità egemoniche mondiali e regionali: dalla rediviva Russia, alla
rinascente Cina, alle altre formazioni minori le quali mirano a
divincolarsi territorialmente costituendo influenze più ristrette che,
tuttavia, intralciano i programmi delle superpotenze.
In questa tenaglia di fatti, l’Italia, anziché reagire e ricavarsi un
posto, ha dato seguito all’apertura dei suoi forzieri, tra traversate
sul Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra che nel
1992 ospitò banchieri, faccendieri, manager delle best company pubbliche
e private, uomini dell’alta finanza e delle nostre istituzioni, dove
vennero sancite le linee maestre delle privatizzazioni dei gioielli di
famiglia), regalie a capitani coraggiosi, disposti al rischio almeno
finché lo Stato copre loro le spalle, cessioni a tutto spiano delle
infrastrutture strategiche a compatrioti squattrinati o falliti (teste
di turco si sarebbero chiamate una volta) risorti grazie a finanziatori
occulti di stanza oltre confine e nei vari paradisi fiscali, ecc. ecc.
Questi dovrebbero essere gli argomenti dell’agenda politica ed, invece,
ci ritroviamo a dibattere tra le promesse di chi vuole eliminare l’IMU
(una tassa che non avrebbe mai dovuto essere introdotta da quanto è
iniqua ed ingiusta) pur avendola votata in aula e le lamentele della
controparte la quale, invece, la ritiene ineliminabile, soprattutto dopo
che è servita a salvare una banca amica. Il livello del dibattito è
l’antipasto di quello che accadrà a breve.
Tra i due grossi schieramenti antitetico-polari s’inserisce poi un
pulviscolo di chiacchieroni moderati, di sognatori liberali e di
estremisti civici che è meglio perderli che trovarli.
Rinchiusi nelle loro chiese oltranziste fantasticano: chi di creare una
perfezione tecnocratica per governare gli italiani con l’assenso di
Bruxelles e degli organismi transcontinentali; chi di eliminare lo Stato
per lasciar sfogare gli animal spirits imprenditoriali; chi di
riportarci ad un ambiente incontaminato, sano di corpo e di principi. I
primi sono appena usciti dall’Esecutivo lasciandosi dietro tante macerie
ed un mare di prelievi dalle tasche dei connazionali, i secondi sono i
medesimi che invocano la libera concorrenza finché ci guadagnano mentre
se iniziano a non macinare profitti s’inventano formule del tipo “too
big to fail” per socializzare le perdite ed, infine, i terzi, vorrebbero
riportarci indietro di secoli, alle comunità auto-sussistenti legate ai
cicli stagionali ma senza pagare il dazio dell’arretratezza produttiva e
della dipendenza dai capricci climatici di quelle formazioni umane
vetuste, blaterando di reti e di energia alternativa in un simile quadro
di rapporti sociali rifeudalizzati.
Per il momento, insomma, siamo messi davvero male, e non saranno le urne
a liberarci dal marcio dei nostri giorni. L’unico augurio da farsi è
che non vada anche peggio di così, ma le speranze sono poche. Peggio di
così, infatti, c’è solo il voto.
Gianni Petrosillo
Fonte: www.conflittiestrategie.it
Link: http://www.conflittiestrategie.it/peggio-di-cosi-si-vota
5.01.2013
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11440
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