Dico al taxista “Mi
porti alla baraccopoli di George Compound per favore”. E chino il capo per
sistemare la telecamera e le mie cose. Quando alzo lo sguardo mi rendo conto che
il taxi è ancora fermo. Bé? Il taxista si era girato e mi stava guardando con
gli occhi di chi ha visto Caronte sul sedile posteriore e non se l’aspettava.
Bè? Lui mi dice “Signore, ma lei è un bianco,
quel posto è… è… i bianchi non ci vanno mai!”. Non si preoccupi, gli dico
sicuro di me. Dentro mi sto cagando addosso, perché lo sapevo che quella
baraccopoli è la porta dell’inferno di Lusaka, Zambia, e questa è la mia prima
volta in Africa, ho solo 31 anni, ma devo sembrare uno scafato. Quindi io ci
vado in quel posto, come sono tanti nel mondo, dove chi ci vive potrebbe esplodere
o prendere fuoco in massa che non si muoverebbe una foglia, né lì né in nessun
altro posto del pianeta. Quelli non sono umani, sono i poveri. Cioè quella
gente là, quelli che per noi "sì lo sappiamo, ah! terribile che ci siano queste cose, guarda, non
mi ci far pensare… mi passi lo zucchero?"
Partiamo e arriviamo. Entro, mi metto a camminare su e
giù per queste collinette di argilla cosparse di alberelli orribili e capanne o
cubi di latta. Puzza, liquami che scorrono ovunque, corde stese con il bucato,
che puzza pure quello perché non hanno il sapone, una delle prime cose che
colpisce il mio occhio sinistro è una pozza d’acqua nera che cola da una pila
di carbone dove nel mezzo sta un bambino nudo sdraiato di schiena che piange, ha
non più di 3 mesi. Sta lì. Altra gente, altri bambini in stracci, un tizio con
una vecchia moto passa e mi copre di gas e grasso, vedo rottami, polli, capre, sento
rumori, e sta puzza. Io filmo. Loro mi guardano, ma neppure tanto. Forse non
uscirò vivo da qui, forse ho fatto la cazzata del pivello di 30 anni che si
presenta con una telecamera che vale il PIL di due anni di tutto il villaggio
senza pensare che sarò cadavere fra 4 minuti. Continuo. E finisco.
Mentre m’incammino verso l’uscita mi rendo conto di essere
bagnato fino ai piedi di sudore intriso di povere e unto, e spero di puzzare
come loro, spero di avere almeno una cosa in comune con queste persone del pianeta “guarda, non mi ci far pensare”.
Poi vedo
una tana di argilla dove dentro vendono bottiglie di qualcosa. Ho sete,
entro,
ma mi dico sei pazzo? Se bevi un goccio di sta roba muori in sette
passi. A
sinistra, su un’asse, c’è un grosso rotolo di stecche zuccherate a
torciglioni,
di quelle che da noi si vendevano negli anni ’50, a strisce bianche e
blu o bianche e rosse. Guardo fuori dal tugurio buio verso la luce del
tramonto e rivedo i
bambini. Dai, facciamogli un regalo, dai, poverini, dai. Prendo
quell’enorme
fascio, pago ed esco.
Come sono fuori, quelli si paralizzano, sette otto bambini che
sono diventati statue di sale nero e mi fissano. Timidi, poverini. Faccio un
passo avanti e li chiamo. Diventano 20 in un secondo, poi una cinquantina, ma
sempre come arrivano al gruppo si salinizzano. Dai! Forza, ciao kids! C’mon,
get this… e sfilo la prima stecca porgendogliela. Nulla. Sale. Ok, sono troppo
intimiditi dall’uomo bianco, allora mi allontano retrocedendo con la schiena
verso il muro del tugurio. C’mon kids! E dai! Due si avvicinano, mi vengono
sotto, a portata di stecca. Gliela do, e quelli fermi. Passano meno di due
secondi e i cinquanta mi sono addosso urlando come forsennati. Io sorrido e
comincio a dire le frasette del deficiente bianco ‘buono’: Ok, ok kids! Enough
for all, calm down, wait, one at a time, there’s lots for everyone!.... Sì, ciao.
Quelli mi si avventano addosso come scimmie impazzite e letteralmente mi
scaraventano per terra. Impossibile gestirla e allora tiro l’intero pacco in
aria a due metri di distanza, e me ne libero, Gesù!
I bambini che felici si azzuffano per lo zucchero. Sì, col
cazzo. Il più grande avrà avuto 7 anni, ma sono pugni in faccia, in faccia
davvero, nella bocca negli occhi, calci, graffi, in tre o quattro contro uno, morsi
orribili con urla orribili, una violenza brutale di corpi alti meno di un metro,
sangue per terra, e artigli che afferrano quello zucchero sbriciolato
sbriciolando anche ogni sembianza di umanità di quegli esseri. Non so se sto
respirando, non so cosa fare. Alla fine il più piccolo ha solo un pezzetto da 4
centimetri di zucchero in mano ed è per terra seduto e stordito. In due gli danno un
calcio dietro la testa e nella schiena e gli prendono lo zucchero. Il piccolo è
con la faccia nella sabbia e urla. Fine della scena.
Mi alzo, sono una maschera di fango e sudore, mi vergogno
come un cane, ma tanto da perdere la cognizione di cosa sto facendo lì. E’ una
vergogna che annulla la geografia e mi sento bambino punito e disperato in
Italia. Alzo lo sguardo verso le capanne e li vedo, gli adulti. Immobili. Mi fissano. Mi fissano. Io li fisso. “NON
MI DISPREZZATE! DIO CANEEEE!” urlo nel cervello… abbiate pietà…
Un uomo sulla cinquantina si stacca dagli altri e viene a
recuperare il piccolissimo che ancora urla. Lo prende in braccio e se ne va. Io
sono con la schiena contro il muro ridotto a un imbecille. Alla mia destra una
voce in inglese mi dice “S’impara in
fretta nel Terzo Mondo”. Mi giro ed è un prete bianco, missionario. Che
m’insegna questo: “Non puoi fermarli,
devono imparare a quell’età a essere belve, se no non arrivano vivi ai 10 anni.
Come credevi che fosse la povertà? Occhi grandi e marron che ti fissano gentili
dalla cartolina dell’UNICEF? No, è questa. O così o crepi qui”.
Una della storie inutili del Terzo Mondo, quelle che “terribile che ci siano queste cose, guarda,
non mi ci far pensare… mi passi lo zucchero?”, o, al meglio, indignazione di
25 minuti. Non l’ho raccontata per loro, figurati che cazzo ce ne frega a noi
di loro, ma per poterla scrivere. Io devo scrivere, perché
questo ha senso raccontare adesso.
nb.: per chi non lo sapesse ci sono altri articoli, altri post, che precedono questo e che sono, penso, altrettanto interessanti.
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