domenica 25 marzo 2018

I “bruciatori di confini” algerini e quei selfie scattati dai migranti diretti in Italia

Roma, 25 mar – “C’è un’alleanza strategica fra l’Italia e l’Algeria sulle grandi sfide che abbiamo di fronte oggi nel campo della sicurezza, dell’immigrazione e dello sviluppo. Avevamo già rapporti eccellenti tra i nostri due Paesi, oggi possiamo dire che li abbiamo ulteriormente migliorati”. Era il settembre del 2017 quando il ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, pronunciava queste parole in visita ad Algeri, dove aveva incontrato il suo omologo, Noureddine Bedoui. Poche settimane dopo, ai primi d’ottobre, i frutti di questa “alleanza strategica” e di questi “rapporti eccellenti” era già palpabile: “Migranti, diminuiscono le partenze dalla Libia ma crescono quelle dall’Algeria”, titolava il Fatto Quotidiano, tanto per citare il primo risultato che si trova in rete.
In tutto il 2017, sono arrivate in Sardegna 884 persone in più di quante non ne fossero venute nel 2016. Nel 2018, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono già 171 in pochi mesi, abbastanza per fare degli algerini la nona nazionalità per numero di immigrati arrivati in Italia. In Algeria li chiamano harraga, “bruciatori di confini”, termine piuttosto eloquente tanto della condizione esistenziale di chi migra, quanto, forse involontariamente, di ciò che accade al Paese di destinazione, le cui frontiere, e quindi la cui sovranità, vengono quindi “bruciate”, polverizzate, cancellate. Come al solito, si emigra per una serie di motivi. La corruzione endemica e la caduta del prezzo del petrolio hanno messo il governo del primo ministro Ahmed Ouyahia con le spalle al muro. L’inflazione galoppa, il potere d’acquisto viene dimezzato e i servizi vengono tagliati. Per molto tempo, la religione ha fatto da ammortizzatore sociale, al prezzo, tuttavia, di una islamizzazione crescente. La primavera araba, qui come altrove, non ha risolto nulla, anzi, forse ha peggiorato le cose.
L’emigrazione verso l’Italia – la Sardegna dista appena 200 chilometri – è quindi diventata una sorta di rito generazionale, con tanto di risvolto social. Su Facebook esiste addirittura una pagina che aggiorna costantemente i propri utenti sui viaggi compiuti dall’Algeria verso la Sardegna, chiamata per l’appunto “HaRaGa Dz”, al cui interno si possono notare selfie scattati dai migranti durante le traversate, così come post scritti in arabo dagli amministratori in cui vengono postate informazioni e dettagli sia sui viaggi appena effettuati che su quelli che ancora devono essere intrapresi. Molti di loro poi puntano alla Francia, con cui c’è un ancestrale rapporto di amore e odio a causa della colonizzazione (anche se, come dice Renaud Camus, è bizzarro che si metta tanta energia per cacciare un nemico tanto odiato e poi, una volta liberi, si faccia di tutto per tornare a voler convivere con lui). Ma quel conta è intanto mettere piede in Europa, poi si vedrà. Parallelamente all’emigrazione “ufficiale”, anche se pur sempre illegale, gli algerini battono tuttavia anche la strada di quella “fantasma”: barchini più piccoli, più sicuri e più veloci, costo della traversata più alto, con la tendenza a sparire nel nulla una volta attraccati. A febbraio, la relazione annuale dell’intelligence ha segnalato che «rispetto agli arrivi dalla Libia, quelli originati dalla Tunisia e dall’Algeria presentano caratteri peculiari: sono entrambi essenzialmente autoctoni e prevedono sbarchi <occulti>, effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici».
Non ci sono solo giovani senza speranze, quindi, ma anche altri migranti, non meglio identificati, dalle intenzioni losche e, forse, sanguinarie. Una chiosa finale: ma queste terre d’emigrazione, saranno almeno solidali con i “poveri migranti” che invece giungono da loro? Se guardiamo alla condizione dei subsahariani in Algeria non si direbbe. Due settimane fa, un gruppo di uomini arrestati a Ghardaia, a 600 chilometri a sud della capitale, è stato espulso verso il Mali. Erano più di 120 persone: maliani, ma anche guineani, ivoriani, senegalesi, gambiani, burkinabè. Gente arrestata senza tanti complimenti sui luoghi di lavoro e deportata al confine. Alla faccia del buonismo.
Adriano Scianca
http://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/82121-82121/

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