Come sono stati rappresentati il terrorismo,
la lotta armata e la violenza politica al cinema? Come i cineasti hanno
trasformato memorie divise in narrazioni visive? Quanti sono i film che
si possono analizzare per rispondere a tali quesiti? A partire da queste
domande nasce il volume a cura di Luca Peretti e Vanessa Roghi Immagini
di piombo. Cinema, storia e terrorismi in Europa, Postmedia books, in
questi giorni in libreria. In apertura del volume abbiamo scelto di
inserire il saggio di Pierre Sorlin che qui presentiamo e che traccia
una breve storia del rapporto tra cinema e terrorismi di vario genere,
includendo anche titoli atipici e che propongono un altro tipo di
sguardo rispetto agli studi classici sull’argomento. Una riflessione sul
metodo, che entra nel merito della possibilità di narrare la lotta
armata attraverso il grande (e piccolo?) schermo.
di Pierre Sorlin
L’immagine in movimento nacque durante l’ultima fase degli attentati
anarchici contro capi di stato e politici che, dopo aver agitato la fine
dell’Ottocento in Europa e in America, si concluse con la morte di
Umberto I. L’Europa entrava in un periodo d’instabilità diplomatica,
segnata dalle Guerre balcaniche, dalla Guerra italo-turca, dalle crisi a
ripetizione che sarebbero approdate al primo conflitto mondiale. In
questo contesto l’opinione pubblica si preoccupava certamente più dello
scacchiere internazionale che del terrorismo. I venti anni che
separarono le due guerre furono fertili di attentati – 120 nella sola
Repubblica di Weimar – ma le difficoltà economiche, insieme alla
politica aggressiva della Germania e del Giappone, eclissarono gli altri
problemi. Durante il secondo conflitto mondiale bombe, deragliamenti,
assassinii di soldati e di collaboratori da parte dei partigiani furono
vissuti come un aspetto della lotta contro il totalitarismo.
Il cinema e il terrorismo nel dopoguerra. Se si mettono da parte i film
che, indirettamente, alludono all’azione dell’IRA, l’Irish Republican
Army irlandese, come Il traditore (The Informer, John Ford, usA 1935),
Fuggiasco (Odd Man Out, Carol Reed, Gran Bretagna 1947), il terrorismo
fu assente dal cinema fino agli anni Sessanta. Nel 1963 Il terrorista di
Gianfranco de Bosio destò scalpore perché, non accontentandosi di
rappresentare una clamorosa operazione partigiana, soggetto prediletto
dei film sulla resistenza, interrogava apertamente la giustificazione e
le conseguenze del terrorismo ma, all’epoca, gli attentati sembravano un
problema del passato, non una preoccupazione per un mondo occidentale
in pieno sviluppo economico. In piena prosperità farsi vagamente paura
era un piacere: orrore e catastrofismo trionfarono negli anni Sessanta e
Settanta e dai cataclismi naturali (Lo squalo, La torre infernale) si
passò a numerosi drammi causati da diverse tipologie di “cattivi”.Prima
che attentati spettacolari come quello di Oklahoma City sconvolgessero
gli Stati Uniti, il terrorismo era diventato un tema ricorrente,
sfruttato da tutti gli studi cinematografici in America, poi in Europa:
soltanto in Spagna più di quaranta film sono stati dedicati alle
attivitàsovversive dell’ETA basca in tre decenni. Rappresentare fatti
eversivi sembra attuale e adatto alle preoccupazioni del pubblico,
soprattutto dopo l’11 settembre. Al medesimo tempo, consente di girare
scene sbalorditive con inseguimenti, sparatorie, esplosioni. Una tale
valanga di bombe e di morti serve per riflettere sul fenomeno
terrorista, le sue radici, le ondate di violenza che turbarono l’Europa
negli anni Settanta, le nuove forme di violenza apparse alla fine del
Novecento? O si tratta di uno specchietto per le allodole come,
anteriormente, la moda del catastrofico?
Terrorizzare: creare un sentimento di forte sgomento e d’impotenza di
fronte a un pericolo tanto più spaventoso quanto indefinito. Le grandi
stragi, come l’11 settembre, enfatizzate dai mezzi di comunicazione,
circondate da un rituale politico-religioso, occultano il carattere
ordinario, quasi quotidiano, del terrorismo. Siete su una strada
strettissima, a forte pendenza, con una serie di tornanti, e guidate
prudentemente a quaranta all’ora. Bruscamente un’altra macchina si trova
dietro la vostra, l’autista sembra sempre più nervoso, lampeggia, suona
il clacson, il paraurti è quasi contro il vostro, vuole costringervi a
correre più rapidamente. Siete infastidito, poi impaurito, non volete
accelerare ma l’inseguitore rischia di farvi slittare nella forra.
L’episodio è banale, fatti del genere succedono continuamente e svelano
l’essenza del terrorismo: in presenza di un ostacolo, di un disagio, di
un’opposizione, si usa la violenza per rimuovere la difficoltà. Duel,
film americano diretto da Steven Spielberg nel 1971, traduce il
carattere agghiacciante, anonimo e arbitrario del terrorismo ordinario:
un viaggiatore, al volante della sua macchina, è bloccato sulla strada
da un’autocisterna che non cede il passo; dopo una fermata, si trova
inseguito dall’autocisterna che non lo lascia; non riesce a vedere
l’autista, non saprà mai né chi era, né perché l’aveva tallonato.
Chiamiamo terrorista la persona che ci sottopone a violenza fisica o
morale, ma l’autista che ci sta addosso non si ritiene minaccioso, pensa
di essere dalla parte della ragione – la sua ragione. I terroristi sono
sempre convinti di agire a buon diritto. La pretesa, usuale, è
particolarmente urtante nel caso del terrorismo di stato che si ammanta
di legalità. Quando, nella primavera del 1937, in una rappresaglia dopo
un attentato, il generale Rodolfo Graziani, secondo le sue precise
parole, fece giustiziare a Debra Libanos (Etiopia) duemila persone, tra
cui trecento monaci, e bruciare la chiesa di San Giorgio, affermò che
aveva operato “nell’interesse dell’ordine pubblico” – in realtà lo fece
perché non veniva a capo di una resistenza che l’esasperava. Per gli
italiani, gli etiopici erano terroristi e viceversa. Ho preso l’esempio
dell’Italia ma tutti i paesi coloniali (Francia, Giappone, Gran
Bretagna, Olanda, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti) sono stati
ugualmente terroristi. Il cinema l’ha mostrato da molto tempo.
La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, Italia-Algeria 1966) si
riferiva all’uso della tortura da parte dell’esercito francese ma lo
faceva a posteriori, quando l’Algeria aveva conquistato l’indipendenza.
Invece Stato d’assedio (Etat de siège, Costa Gavras, Francia 1972)
denunciava i metodi illegali usati, in America Latina, da governi
reazionari, con l’aiuto attivo degli statunitensi. Il protagonista era
direttamente ispirato a un agente americano, Dan Anthony Mutrione,
specialista della tortura, organizzatore di “squadroni della morte”,
ucciso dai Tupamaros uruguaiani. Per evitare l’effetto suspense, il film
cominciava con il seppellimento dell’agente, poi descriveva il suo
ruolo nell’addestramento della polizia locale e nella liquidazione delle
forze popolari, mostrando come, sottomano, intimidazione, sevizie e
omicidio sovvertivano la legalità. Terrorismo e contro-terrorismo si
rispondono e usano procedimenti paragonabili, ognuno con la certezza che
la sua causa, essendo legittima, giustifica l’uso di mezzi illeciti.
Per gli attentatori dell’11 settembre, i terroristi erano gli americani
che accaparravano gran parte delle ricchezze mondiali, facevano i
carabinieri universali a scapito dell’indipendenza dei popoli e, nella
prima guerra in Iraq (1991), avevano combattuto l’Islam. Un cuore forte
(A Mighty Heart, Michael Winterbottom, USA 2007) mette in luce questa
logica implacabile. Nel 2002, un giornalista del Wall Street Journal,
catturato da ribelli pakistani, fu detenuto parecchie settimane e infine
ucciso. L’uomo non si occupava di politica, faceva un’inchiesta
sull’Islam in Pakistan, ma era americano, dunque colpevole. Il
terrorismo è una forma di paranoia. Chiuso in se stesso, il terrorista
sogna l’eliminazione totale di tutto ciò che gli dà fastidio. L’autista
che vi insegue vorrebbe che la strada fosse totalmente libera,
pienamente sua, non pensa a voi, desidera far sparire l’ostacolo in
qualsiasi modo. L’attentatore ignora l’altro, che sia individuo o
società, e questo è, al medesimo tempo, la sua forza e la sua debolezza.
La forza, poiché non esita mai dato che non può, neanche per un attimo,
mettersi al posto della vittima, e la debolezza, poiché non misura né
l’energia, né la capacità di resistenza dell’altro. Incapace di
rappresentarsi l’avversario, colpisce ripetutamente, senza chiedersi se
può ottenere un risultato. Il terrorismo, fautore di danni drammatici, è
raramente efficace.
L’impossibile racconto. I terroristi, qualunque sia il loro obiettivo,
creano un profondo panico. Negli anni di piombo le possibilità, per un
italiano, di morire a causa di una sciagura stradale o di un incidente
domestico erano ottanta volte più forti del rischio di perire in un
attentato, ma erano le bombe che facevano paura, non le macchine o gli
scalei. Lo shock che seguì l’11 settembre fu talmente forte che il
Congresso votò frettolosamente e senza delibera il Patriot Act che
rinforzava i poteri civili e militari del presidente a scapito delle
libertà individuali e dell’informazione. Quattro anni dopo, alla vigilia
dell’elezione presidenziale, quando nessun atto sovversivo si era
prodotto in America, si formò un gruppo di “mamme di sicurezza”
(security mums) che promettevano il loro voto al candidato più impegnato
nella difesa dei bambini contro il terrorismo. Tale paura, prolungata
nell’arco di parecchi anni, è irrazionale ma i fenomeni di spavento
collettivo sono frequenti. Periodicamente insorgono nuovi motivi di
terrore: nell’ultimo mezzo secolo il mondo ha conosciuto il rischio
atomico, la guerra fredda, l’Aids, le api micidiali del Messico, il
virus Ebola, la febbre aviaria, la rivoluzione climatica, il virus suino
e, in più, ogni paese ha avuto i propri motivi per non sentirsi al
sicuro, come terremoti, incendi forestali dell’estate, allagamenti,
tutti pericoli misteriosi, sovrastanti, contro cui non si può lottare,
che destano scalpore per un certo tempo, poi vengono dimenticati. (…) Un
certo terrorismo interviene nell’istante, in mancanza di una
riflessione sui mezzi da utilizzare e le tappe da percorrere per
raggiungere un obiettivo di lungo periodo. Per questo, provoca una paura
improvvisa e difficilmente superabile che possiamo comprendere tenendo
conto della costruzione e della circolazione delle notizie in una
società. Quando comunichiamo un fatto privato (la cugina che si è rotta
una gamba) o pubblico (le decisioni prese alla conferenza sul clima)
usiamo, nella maggioranza dei casi, racconti, brevi o lunghi. Prima di
arrivare all’evento finale, del quale vogliamo dare conoscenza, ne
esponiamo l’origine e aggiungiamo dettagli intermedi che riteniamo
importanti. Due condizioni sono necessarie per rendere la narrazione
intelligibile: che i termini siano chiaramente identificati (Quale
cugina? Quale conferenza?) e che la concatenazione degli episodi
riferiti sia logica.
Precisamente tali requisiti difettano nel caso degli attentati. In
innumerevoli occasioni durante gli anni di piombo, le reti televisive
mostrarono la carcassa di una macchina carbonizzata o le rovine di un
edificio con un laconico commento: “È avvenuto alle 2 di notte”. Manca,
nel caso delle aggressioni terroristiche non mirate a un obiettivo
dichiarato, la materia indispensabile per costruire un racconto: i mass
media, ignorando chi ha operato, per quali motivazioni, in quale
maniera, sono ridotti a ripetere indefinitamente la cronologia
dell’accaduto, che non spiega niente, e a diffondere gli scarsi dettagli
relativi agli attentatori.
Agli occhi degli statunitensi, gli attacchi dell’11 settembre non
potevano essere un termine in sé, dovevano precedere una proclamazione,
un progetto, una minaccia, qualcuno doveva presentarsi come il fautore
della strage, altrimenti, al di fuori del dolore delle famiglie,
l’operazione non aveva senso, non c’era nessuna possibilità di
caratterizzarla. Gli esecutori, individui qualsiasi, sconosciuti, senza
rilievo, avevano agito per conto loro? e perché? o erano sotto gli
ordini di un altro personaggio? chi (ricordiamo che la responsabilità di
Bin Laden non è mai stata dimostrata; lui stesso aspettò due mesi prima
di rivendicarla)? qual era il punto di partenza? e quale la finalità?
Il cinema testimonia la differenza tra un terrorismo politicamente
orientato e un terrorismo “alla cieca”. Un numero rilevante di film
dedicati all’IRA o l’ETA descrivono dall’interno il mondo degli
attentatori, lo scontro tra terroristi e contro-terroristi, il dolore e
le sofferenze delle vittime, l’incatenamento infinito degli atti che
provocano una risposta, senza che si possa dire chi ha cominciato. Il
cinema spagnolo ha utilizzato la fiction per porre, attraverso il caso
dell’ETA, la questione della violenza come arma politica. Lo iato tra il
fine e i mezzi appare chiaramente in La spiaggia dei levrieri (La playa
de los galgos, Mario Camus, 2001). Un etarra, Pablo, sconvolto dopo
aver ucciso un ingegnere (allusione a un crimine dell’ETA contro
l’impianto di una centrale nucleare nel Paese Basco), decide di
rinunciare alla violenza ma sbatte contro tre realtà: il rancore dei
suoi compagni, il rifiuto della fidanzata, anche lei etarra e risoluta a
continuare la lotta armata, la vendetta della vedova che lo perseguita e
lo uccide. Il rifiuto, comprensibile, di una “colonizzazione” economica
del Paese basco induce un assassinio arbitrario, senza relazione con il
progetto industriale e trascina Pablo in un circolo dal quale non può
uscire. Il film aiuta a capire le motivazioni dei nazionalisti e la
logica aberrante che si sviluppa all’interno di un gruppo clandestino,
isolato dalla popolazione e chiuso in se stesso. Col passare del tempo,
evocare il terrorismo spietato dei vari campi nelle lotte che
accompagnarono l’indipendenza dell’Irlanda è meno arduo: Michael Collins
(Neil Jordan, Gran Bretagna 1997), biografia romanzata di un leader
dell’IRA, mostra tanto gli irlandesi che assassinano a sangue freddo gli
agenti britannici, quanto i carri armati inglesi che massacrano la
folla pacifica in uno stadio, Il vento che accarezza l’erba (The Wind
That Shakes the Barley, Ken Loach, Gran Bretagna 2006) ricorda come,
dopo aver subito insieme la repressione e le torture dei britannici, gli
irlandesi si divisero e rivolsero la violenza contro loro stessi.
L’eversione riferita in questi film è semplicemente un elemento della
storia, nascosto a lungo, progressivamente sottratto all’oblio.
A differenza del terrorismo finalizzato a un obiettivo, il terrorismo
cieco non è narrabile, si riduce alla preparazione ossessiva dell’atto
più sanguinario possibile. Il carattere ermetico delle cellule
terroriste è talmente forte che Un cuore forte non racconta direttamente
il rapimento e l’uccisione del giornalista americano, l’unica soluzione
è seguire la moglie alla ricerca del marito. I due film americani che
parlano dell’11 settembre, ambedue usciti nel 2006, World Trade Center
di Oliver Stone e United 93 di Paul Greengrass, nell’incapacità di
coglierne il carattere politico, si sono concentrati sul comportamento
di alcuni individui, riportando vicende raccontabili, con un inizio,
alcune peripezie e una conclusione. I due protagonisti di World Trade
Center, seppelliti sotto le macerie, confusi, ignari di quello che è
successo, feriti ma vivi, lottano valorosamente per più di due ore per
sopravvivere. Non comprendono niente, non più delle loro famiglie
inchiodate davanti al televisore. Il film opera una curiosa traslazione,
incapace di rendere conto dell’evento punta da una parte sull’effetto
di paura e claustrofobia, dall’altra sull’eroismo dei personaggi che non
si abbandonano alla disperazione. Lo United 93 era il quarto volo in
partenza da Boston che fu dirottato, probabilmente per colpire un
monumento pubblico (la Casa Bianca?), ma dopo uno strano percorso si
schiantò in Pennsylvania. Le chiamate telefoniche di certi passeggeri
fanno pensare che ci fu una ribellione contro i dirottatori che non
riuscirono a portare a termine la loro missione. Su una trama di questo
genere un buon sceneggiatore era in grado d’inventare cento episodi nei
quali si manifestava il coraggio di cittadini disposti a morire per far
fallire l’attentato.
Quattro giorni dopo l’attacco il New York Times cominciò la
pubblicazione di una rubrica che durò fino a dicembre, Una nazione
sfidata (A Challenged Nation). Il titolo sembrava promettere
considerazioni sull’ostilità nei confronti degli Stati Uniti, sulle sue
origini e sulle soluzioni per combatterla ma, in pratica, fu soltanto
una serie di “ritratti di lutto” (portraits of grief), brevi biografie
di tutte le vittime. Il ricordo di persone simpatiche, dedicate alla
famiglia, agli amici e al lavoro, evitava di andare al cuore della
tragedia. Sei anni dopo, mentre il paese era impegnato in due guerre
(Afghanistan e Iraq) che necessitavano una riflessione sull’uso della
forza militare contro il terrorismo, i film menzionati sopra
continuavano a privilegiare storie individuali, conseguenze di un
medesimo fatto originale – gli attentati – che non veniva discusso.
Non narrabile non vuol dire inspiegabile. Molte motivazioni
psicologiche, sociali, mentali possono condurre certi soggetti a negare,
attraverso il loro annientamento, ostacoli che non riescono a superare.
L’autodistruzione dei kamikaze, pur irrazionale che sia (non sapranno
mai se quello a cui miravano è stato distrutto) lo dimostra: l’odio nei
confronti di una resistenza insuperabile s’incrosta nella persona a un
punto tale che questa deve morire per annientare l’ostacolo.
Analizzare il processo mentale che porta un individuo o un gruppo a
compiere azioni micidiali, suicide, poco efficaci, contro sconosciuti, è
realizzabile, ma richiede una grande precisione nell’analisi,
un’attenzione alle più piccole sfumature. Il cinema, arte della
rappresentazione, non riesce a suggerire il flusso di una coscienza,
mostra gli aspetti esterni, la rabbia di un ragazzo la cui famiglia è
stata massacrata da militari stranieri, l’adesione a una banda
sovversiva, l’addestramento alle armi – ma non l’andamento interno che
porta dal lutto a un uso cieco della violenza. In Germania, in Italia,
nonostante la distanza rispetto agli anni di piombo, i film si occupano
del dopo, della difficoltà di giustificare o scordare, non delle origini
del terrorismo. In Gli anni di piombo (Die bleierne Zeit, Margareth von
Trotta, Germania 1981), Viene il giorno (Es kommt der Tag, Susanne
Schneider, Germania 2009) o La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995),
un’ex terrorista (il fatto che sia una donna mette del pepe nella
vicenda) vorrebbe voltare pagina ma viene raggiunta dal passato. La
trama verte sul rapporto tra due sorelle che si sono schierate l’una
pro, l’altra contro l’azione illegale: sul conflitto
dimenticanza/ricordo da parte della brigatista tedesca che, per fuggire,
ha abbandonato la figlia; sul confronto con la vittima per l’italiana,
vale a dire su questioni personali, non sull’impegno negli attentati.
Questo non significa che il cinema misconosca o sottovaluti il
terrorismo, bensì che bisogna chiedersi quando e come si può parlarne.
In meno di un decennio, prima che gli attentatori si scatenassero in
Europa, tre film, Duel, Il terrorista, Stato d’assedio, avevano offerto
una riflessione sul fenomeno sovversivo che, allora, non sembrava
minaccioso. Duel aveva attirato l’attenzione sulla presenza quotidiana
di una violenza distruttiva determinata dall’incontro con un ostacolo.
Il terrorista aveva evidenziato gli effetti limitati e i danni notevoli
conseguenti agli attentati: a Venezia, nel 1944, i tedeschi vanno fieri
di aver stabilito una “fiduciosa comprensione” con una popolazione
rassegnata ad aspettare l’arrivo degli alleati. Per scuotere una
passività che sfiora la complicità, un uomo organizza un attentato,
sapendo che i tedeschi fucileranno ostaggi, provocando, forse, un
sussulto dei veneziani. Senza giudicare, il film fa risaltare le
condizioni dell’azione terrorista e le conseguenze che provoca. Infine,
Stato d’assedio aveva mostrato come il terrorismo generi un temibile
contro-terrorismo. Le tre dimostrazioni erano chiare ma relativamente
astratte, riguardavano un paese indeterminato per la prima e la terza,
un’epoca già lontana per la seconda. In novanta o centoventi minuti, un
film è capace di trattare un caso teorico e di far ragionare sugli atti
mirati a rovinare uno stato di cose che dà fastidio, disturba, o diviene
intollerabile. Il pericolo eversivo e gli atti terroristi, là dove
intervengono, non sono contingenti, spaventano, fanno soffrire, destano
reazioni istintive senza paragone con il rischio che rappresentano e non
lasciano spazio al distacco: i film citati sopra non “parlano” a chi si
trova preso nella bufera. Le manifestazioni del terrorismo sono
dappertutto le stesse: attentati, mitragliamento, sequestri si
somigliano. Al contrario, la formazione di un nucleo terroristico
dipende da fattori che cambiano a secondo dell’epoca, del luogo,
dell’ambiente storico, delle condizioni economiche, delle tradizioni
culturali, ogni evento è particolare, comprenderlo presuppone una lunga
inchiesta sul contesto nel quale è apparso. Il film non è appropriato a
questo tipo d’indagine. Nei tre film che inscenano un’ex terrorista
costretta a tornare sul proprio passato, lunghi dialoghi, a volte
tediosi, tentano di spiegare itinerari personali. Le protagoniste si
limitano a evocare il proprio stato d’animo, non sono consapevoli del
fatto che il loro impegno fu generazionale tanto quanto individuale,
inseparabile dal contesto politico nel quale era nato. La rabbia di uno o
di dieci uomini, per violenta che fosse, non sarebbe mai stata
sufficiente a condurre in porto gli attentati di New York, l’atto rivelò
l’odio di una costellazione di esseri umani che, senza partecipare
all’azione, la sostennero implicitamente: i film mostrano tale o
tal’altro individuo, non sintetizzano un insieme di pensieri e di
collere convergenti. Invece, al di là di casi specifici, permettono di
ragionare sulle varie forme di terrorismo che intervengono nella
quotidianità – e questo non è trascurabile.
Fonte: www.minimamoralia.it
9.01.2014
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=66794#top
Nessun commento:
Posta un commento