DI SERGIO DI CORI MODIGLIANI
liberi-pensieri.info
(con mio commento alla fine)
Parliamo di povertà, oggi.
Dei vecchi poveri e dei nuovi poveri.
Aveva venticinque anni, quando pubblicò il suo primo romanzo. Non appena
uscito, presso quella che potremmo oggi definire “piccola editoria
indipendente”, il libro ebbe un successo travolgente, grazie soprattutto
al fatto che il più importante critico letterario dell’epoca, il
potente Belinskij, ebbe a scrivere che “la Grande Madre Russia ha
finalmente partorito un grande genio della letteratura, che raccoglie
l’eredità di Gogol e lancia la nostra patria verso un futuro che appare
già pieno di sicura e certa illuminazione sulla strada da percorrere:
quel romanzo è ispirato dall’alto direttamente da Cristo”. Eravamo a
Mosca. Nel pieno della più grave crisi economica recessiva della sua
storia, nell’autunno del 1846, centosessantasette anni fa.
Il
libro di cui parliamo si intitolava “Povera gente”, romanzo d’esordio di
Fedor Mickailovitch Dostoevskij, il fondatore del romanzo realista, il
più enigmatico, profondo, visionario scrittore europeo, il padre
indiscusso della letteratura moderna.
Quando il romanzo uscì, il suo incredibile successo scosse le coscienze
pensanti della borghesia russa in ascesa, perché gettava una luce di
tragica attualità sul Senso delle esistenze dei poveri, sulla loro vita,
sui loro sogni, sulle loro aspirazioni. Ciò che colpì l’immaginario
collettivo delle classi colte di allora fu il fatto di scoprire che i
poveri erano cambiati. Non erano più soltanto figli di contadini in
dissesto, analfabeti, senza fissa dimora, che si aggiravano nelle
campagne in cerca di cibo. Non erano neppure le famiglie indigenti degli
operai assunti nella nuova industria manifatturiera e metalmeccanica,
con stipendi da fame, nell’impossibilità di mantenere la loro famiglia.
Le manovre restrittive imposte dallo zar avevano, allora, provocato un
collasso nella nascente e prosperosa borghesia moscovita, che era stata
così annientata, producendo una insospettabile classe di cittadini: i
nuovi poveri. Giovani che erano andati all’università, figli di medici
di provincia, di notai, di professionisti urbani, eliminati dal mercato
per via di un aumento esorbitante delle tasse zariste sul demanio, erano
andati a formare una clandestina e insospettabile classe di nuovi
poveri. Il romanzo “Povera gente” toccò e perforò la sensibile anima del
popolo russo, alimentando il germe di una sentimentalità mescolata a
intensa spiritualità e attivismo politico, quella che di lì a breve
avrebbe prodotto la fulminante e contagiosa passione rivoluzionaria
bolscevica. I giovani universitari si radunavano per leggere a voce alta
il romanzo agli analfabeti, che allora erano la maggioranza
schiacciante della popolazione: avevano trovato una voce che li
rappresentava, in grado di esprimere con parole semplici e immediate il
loro disagio.
La tecnica del romanzo è epistolare: uno scambio di lettere tra due
giovani, colti, senza futuro, travolti dalla miseria economica più nera e
colma di disperazione esistenziale, che si scambiano la loro idea del
mondo. Nasce una violenta passione amorosa tra i due, che entrambi
identificano come passaporto per una possibile felicità sulla terra, ma
la loro povertà impedisce una loro unione. L’aspetto di quel libro che
colpì l’immaginario collettivo, al di là della sua qualità intrinseca
letteraria, fu la scoperta che la povertà economica non aveva niente a
che fare con la miseria interiore, anzi. Anche se a noi, oggi, può
suonare strano, per i russi di allora fu una incredibile sorpresa venire
a sapere che persone povere di soldi, travolte da una quotidiana
indigenza, in verità rivelavano un mondo interiore, sia emotivo che
esistenziale e psicologico, di invidiabile ricchezza sentimentale,
spirituale, culturale. Con 55 anni di ritardo, arrivava nella Grande
Russia il seme piantato dalla dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, prodotta dalla rivoluzione francese.
Noi, oggi, in Italia, siamo in una situazione “politico-emotiva” paragonabile a quella dei russi nel 1846.
Con atroce ritardo, ipocrita sorpresa, una snervante quanto subdola
lentezza, l’attuale classe politica dirigente, attraverso i vassalli
della cupola mediatica, scopre che in Italia, nella primavera del 2013
esistono i poveri. Non solo. Scoprono (e la considerano una notizia,
come se si fosse verificato lo scorso febbraio, così, all’improvviso)
che sono tanti, molti di più di quanto non pensassero (loro che non lo
sono): milioni e milioni. Vengono a sapere che non si tratta soltanto di
extra-comunitari, emigrati affamati senza patria, fannulloni di varia
natura, tossici sbandati, sporadici casi sociali di natura clinica,
bensì una marea di giovani e anziani, figli e nipoti di una borghesia
maciullata dall’iper-iberismo, non avvezza a elaborare anticorpi
necessari per la sopravvivenza. Scoprono, oggi, addirittura
dichiarandosi sorpresi, che l’Italia è un paese medioevale e arretrato,
com’era la Russia nel 1846, dove non sapevano neppure che cosa fossero i
diritti civili sui quali si dibatteva nel resto d’Europa da almeno
cento anni, da quando Voltaire e gli altri illuministi avevano iniziato a
diffondere il loro pensiero libertario. Sciorinano dati statistici
allarmanti, freddi, oggettivi, numeri che si aggiungono ad altri numeri,
impietosamente declinati senza pensare che ogni numero si riferisce a
una Persona, a una Esistenza, a una Vita Pulsante, che è legata ad altre
vite in una catena umana che, in un modo o nell’altro, tocca tutti noi.
Riguarda tutti noi, nessuno escluso. Scoprono, oggi, che in Italia i
suicidi degli imprenditori e dei salariati sta aumentando a un ritmo
vertiginoso e preoccupante, insostenibile per una società
europea. Scoprono, oggi, con circa 40 anni di ritardo, che l’Italia è un
paese sorretto da piccole oligarchie del privilegio garantito, la cui
bulimica avidità aumenta ogni giorno di più ingigantendo la questione
sociale. Peggiorandola. Rendendola endemica, perché chi ne parla lo fa
sempre dall’alto “come se” proponendo alla fine delle soluzioni
operative che altro non sono che elucubrazioni retoriche e bizantinismi
inutili che hanno l’obiettivo di mantenere lo status quo allargando
sempre di più lo spettro della povertà che dilaga. La cosiddetta
“manifestazione contro la povertà” indetta dal PD, avrebbe potuto
essere, in questa Italia degradata del 2013, come “Povera gente” lo era
stato in Russia nel 1846: un fragoroso acceleratore di particelle di
consapevolezza, la presa d’atto di una situazione di emergenza sociale,
presentata e rappresentata dalle voci esistenziali di chi soffre, di chi
non ha più nulla, di chi è immerso nella disperazione quotidiana, nel
solipsismo consueto dei nuovi disabili italiani, censurati e
clandestini: i poveri senza volto, i vergognosi del proprio dissesto, i
colpevolizzati per via del proprio dissesto, gli abbandonati, esclusi,
emarginati e marginalizzati da una società (quella italiana) provinciale
e cattiva, narcisista e malvagia, da sempre avvezza a rincuorare e
valorizzare i vincenti, fuggendo dai bisognosi per evitare di prendere
atto dell’esistenza di una propria miseria latente, temendone,
magicamente, una specie di contagio esistenziale. Avrebbe potuto essere
una occasione d’oro, forse l’ultima, per coloro che pontificano sui
giornali e alla tivvù, per venire a raccontarci delle esistenze delle
persone vere, proponendo una soluzione, un progetto, un programma, una
medicina, un sogno, una speranza. Una parola. Forse, sarebbe bastata
anche una semplice parola, tanto per fare capire ai milioni di poveri
consapevoli e a quei milioni di potenziali poveri inconsapevoli (nel
senso che oggi non sanno quanto saranno poveri anche loro, a breve e
brevissimo tempo) che si è preso atto dell’esistenza e dell’autenticità
delle loro vite. Per sapere. Tutti. E invece, il PD ha scelto di ignorare la narrativa esistenziale.
Ma non si tratta soltanto di un errore, bensì di un suicidio annunciato.
Un gruppo di burocrati obsoleti, applauditi dalle clientele
rappresentate e dai capi bastone che controllano i voti dei bisognosi
ricattati, si è riunito in un teatro parlando di nulla. Discorsi
auto-referenziali, inutili, insultanti, privi di sostanza
pragmatica. Neppure una frase, una parola (sia d’ordine che di
disordine), una lettera, una virgola, sull’immediato programma da
applicare domattina dovunque e comunque per far fronte all’emergenza
sociale.
Una manifestazione contro la povertà senza poveri.
Una manifestazione contro la povertà senza le vite dei nuovi poveri.
Una manifestazione contro la povertà senza fornire adeguate misure contro la povertà.
Una manifestazione iper-realista: la prova della loro povertà di idee.
E’ la malattia mortale del PD.
E’ la pestilenza del 2013.
E’ un bacillo infetto di cui non è responsabile né Berlusconi né
tantomeno Beppe Grillo. Se il PD non è in grado di produrre idee è
perché ha una dirigenza che ne è priva.
Questo PD ha prodotto, volontariamente, una classe dirigente non pensante.
Questo PD ha voluto costruire una classe dirigente incapace ma servile, quindi utile a loro ma inutile per il paese.
Questo PD è incapace di pensare, perché è privo di pensatori.
Mentre Bersani portava fino in fondo il suicidio della sua compagine, a
600 chilometri di distanza, il presidente Giorgio Squinzi chiudeva il
suo convegno sulla piccola impresa di Confindustria. “Il tempo è scaduto
perché siamo al collasso” ha detto con realismo “e questa classe
politica di inetti non ci rappresenta più. Da oggi, per noi, conta il
nostro programma che intendiamo portare avanti e ruota su tre punti
che…lasciatemi usare questo termine….da questo momento diventa il nostro
mantra: credito, lavoro, occupazione. Questo è ciò che a noi interessa.
Perché a noi, gente che fa impresa, non piace e non vogliamo vivere in
un paese povero, e vogliamo produrre ricchezza per tutti”. Così ha
parlato chi rappresenta la parte più ricca della nazione.
Mentre a Roma si consumava il macabro rituale di un gruppo di mummie,
completamente incapaci di pensare, di progettare, di rispondere.
Sergio Di Cori Modigliani
Fonte: www.liberi-pensieri.info
Link:
http://www.liberi-pensieri.info/2013/04/i-nuovi-ricchi-del-pd-ignorano-i-nuovi-poveri-il-suicidio-annunciato-della-comunicazione-di-una-sinistra-impresentabile/
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14.04.2013
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Di Cori Modigliani sfonda una porta aperta: da anni, come ho scritto anche in questi giorni e scrivo da anni mancano proprio la convinzione che c'è da fare qualcosa, e in più non si sa cosa sia questo qualcosa. In sostanza chi se la passa più o meno bene o benissimo, non ha la percezione nè la vuole avere di realtà diverse e peggiori della sua: chi ,al contrario, come il Pdl per un verso e il Pd per un altro, dovrebbe occuparsi delle imprese e delle industrie (il Pdl) e della situazione dei lavoratori e dei pubblici dipendenti e pensionati (il Pd), mai e poi mai si è interessato di migliorarne o garantirne i diritti (acquisiti o da acquisire). A questi due partiti si è aggiunta la speranza del e nel M5S: delusione completa allorchè non si muove niente da quelle parti , se non la parola decrescita, km zero, telelavoro, ridimensionamento , stop ai consumi...insomma se anche così volessero fare, non lo dicono con i fatti, con la velocità nel voler fare le "cose giuste" dato che la casa brucia. E' allora evidente che la loro casa non è interessata da incendi e ,come per gli altri, le cose in casa M5S vuol dire che vanno bene o discretamente. Questa è la realtà che il signor Sergio ha dipinto ma a metà o poco meno della metà, perchè gli altri non hanno voglia di fare un beneamato tubo.
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