martedì 13 marzo 2012

Chi decide?

Su Megachip ho trovato questo articolo, secondo me interessante e che ho copiato. Eccolo
di Pierluigi Fagan
Siamo abituati a dirci e pensarci democratici, qualunque sia il posto sulla nostra scacchiera politica ma vi fu un tempo in cui la democrazia, come la gioia, era un'idea nuova in Europa. Vi fu un tempo, ancora più remoto, in cui il termine stesso fu inventato. (Jean-Pierre Vernant)
Cràtos, in greco antico, significa “potere di decisione”, colui o coloro che impongono la deliberazione esecutiva. In buona parte, il primo problema della “politica” è proprio stabilire chi detiene il “cràtos”, il potere di decidere ciò che poi s’impone. Diverso significato ha invece “árchìs” che si può intendere come “governo” e sfuma in un significato più complesso.
Chi decide, dunque, nelle moderne forme stato nazionali occidentali?
“Il popolo” o più ad effetto “il popolo sovrano”. Infatti, questi sistemi si appellano come “cràtos” del demo [1], ovvero potere al popolo, democrazia [2]. Democrazia è una di quelle parole a cui Ivan Illich [3] dava la qualificazione di “parole ameba” o “idoli” termini stretti per significati larghi, sfuggenti, stratificati e confusi. Oggi noi (in senso ecumenico) ad esempio, usiamo il termine composto “democrazia di mercato”, ma nell’uso disinvolto dell’espressione non ci rendiamo conto di star dicendo “una democrazia oligarchica” che farebbe sussultare il buon Aristotele che tanto si spese per chiarirci cos’è un potere dell’Uno, dei Pochi o del Molti [4].
Il principio della democrazia è l’isonomia, che si traduce nell’espressione “una testa – un voto” ovvero ognuno conta come un altro, il principio del mercato è il capitale che si traduce nell’espressione “una moneta – un voto” ovvero ognuno conta per quanto capitale ha. Democrazia è quindi potere dei Molti (come approssimazione realistica dei Tutti), il mercato genera inevitabilmente l’oligarchia che è potere dei Pochi. La locuzione quindi tradotta in concetti suona come “il potere dei molti dei pochi”, un assurdità, com’è evidente.
Il fatto è che democrazia è una cosa connessa ad una parola. La cosa ha una sola approssimazione storica conosciuta (o meglio accompagnata da altre forme similari, ma a noi assai meno note [5]) che risale all’Atene del V° secolo prima dello 0. Parola e cosa sonnecchiarono per più di due millenni, poi la sola parola viene riesumata da Benjamin Constant nel 1819 [6], e posta a denotare il sistema politico liberale con una società ordinata dal mercato e la sua politica (subordinata al mercato) ordinata da un sistema rappresentativo che genera élite votate da una minoranza. All’inizio del ‘900 questa minoranza dei votanti viene progressivamente allargata sino a raggiungere il suffragio universale, con scadenze diverse per diversi paesi. L’Italia, insieme alla Francia, giunge al suffragio universale solo dopo al Seconda Guerra Mondiale.
Oggi ci si trova dunque in questa bizzarra situazione, a volte sentita come senza alternative, per la quale vi sono élite in competizione che si presentano ad un corpo elettorale teoricamente popolare, per disputarsi il ruolo di “eletti” (termine di origine religiosa) con mandato di rappresentanza. In pratica la “democrazia rappresentativa” è al contempo:
1) un sistema di legittimazione delle oligarchie
2) una rappresentazione (ovvero uno spettacolo inscenato per simulare): la democrazia quale cràtos del popolo, ma in realtà cràtos degli eletti
3) un sistema di elezione (molto saltuaria) [7] di una élite di governo di una società che però non è ordinata dal principio politico, ma da quello economico e specificatamente dalla sua versione liberale fatta di – laissez faire – al mercato, alla sua mano invisibile, alla sua capacità di autoorganizzazione, al vantaggio ricardiano o vantaggio comparativo delle nazioni, alla cinica legge di Say per la quale è la produzione a creare il suo consumo ovvero è l’offerta che crea la domanda.
Su quest’ultimo punto, si noti che le tre teorie paradigma, non sono più recenti di duecento anni fa, alla faccia della modernità! Si badi bene, non stiamo parlando dell’Europa di Bruxelles, né tantomeno dell’Occidente in preda a conati di neo liberismo furioso, né del sistema ai tempi di Benjamin Constant, ma della genetica di un sistema che origina dalla Gloriosa rivoluzione inglese del 1688-89. Tale sistema con cràtos delle élite elette in forma bicamerale con separazione dei poteri, da allora, ha solo ampliato la base elettiva, ma nella sua forma di cràtos oligarchico [8], è tale da trecentoventi anni.
Questa cosa che ci hanno portato a chiamare democrazia e che tutto è meno che un sistema puramente politico e tantomeno con potere di decisione in mano all’intera composizione sociale della comunità (continentale, nazionale, regionale, comunale o come la si voglia ritagliare) si configura come una enorme operazione pubblicitaria. In questo senso “democrazia” in termini moderni, è chiaramente una esagerazione che tende a profumare e rendere brillante tutt’altro sistema sottostante.
Ciò porta, da più parti, a smarrimento, cecità ed a una diffusa pigrizia nell’affrontare il punto centrale della questione: sino a che non ci chiariamo, a chi dare il potere di decidere all’interno di una società ordinata dal principio politico e non certo da quello economico (o religioso, o militare), ogni sforzo di uscire dalla decadente società occidentale che sta affrontando con terminali convulsioni il suo inevitabile pre – finale di partita, risulterà del tutto vano. Tale questione, la riesumazione della cosa connessa alla parola, la riconnessione tra democrazia nominale e democrazia reale, ci porterà a dover discutere e rivedere tante cose: quali sono le porzioni di territorio connesse alla comunità politica (municipalismo puro, municipalismo confederato, regioni-bioregioni-macroregioni-distretti, sistemi regionali confederati, nazioni, nazioni confederate).
Che tipo di comunità economica abbiamo in prospettiva programmatica (di mercato, di stato, mista, con o senza o in parte proprietà privata, con o senza o in parte con proprietà collettiva e collettiva in che senso: dei lavoratori o dei cittadini, individuale, collettiva o integralmente demotica – cioè una economia democratica -, con frontiere aperte o chiuse o semi chiuse, crescista o decrescista, quanto redistributiva, quanto centralizzata o decentralizzata, finanziarizzata sì, no, come e da chi).
Che tipo di comunità culturale (formazione, conoscenze, informazione da distribuire quanto più in forma isonomica possibile ad ogni membro della comunità) ad esempio chiarire se siamo all’interno della secolare tradizione élitaria che origina da Platone o dai sacerdoti che scrissero l’Antico Testamento oppure se siamo all’interno della tradizione seppellita da oligarchi e cristiani, cioè quella del relativismo protagoreo. Se siamo immersi in una cultura élitaria difficile ne possa scaturire un impeto democratico.
Che tipo di comunità sociale (la reale isonomia di uomo e donna per esempio, il ruolo degli anziani sempre più longevi, l’inclusività o l’esclusività etnica, dov’è il tempo per conoscere, dibattere, partecipare per poi decidere).
Che tipo di Mondo (del tutto aperto, debolmente o fortemente interconnesso, interconnesso da cosa, chiuso in monadi competitive, chiuso in monadi che tentano d’ignorarsi, in competizione o in collaborazione, tra chi e come.
Ne discenderà una Idea composta di molteplici aspetti tra loro correlati ed una idea minore relativa al tempo necessario ad una transizione, i primi passi da effettuare, le prime parole d’ordine, gli obiettivi comuni su i quali mobilitarci insieme ad altri [9].
Ma prima di decidere ogni “cosa”, rispetto alla decisione bisogna stabilire il “chi”.
Movimenti sull’energia, sulla transizione, sulle lotte di genere, critici della globalizzazione, del potere finanziario, delle élite particolari o globali, esplicite o arcane, difensori del territorio, stanchi del post moderno, orfani del sogno comunista, libertari, progressisti umanisti, beni comunitaristi, decrescisti, disgustati dall’utopia negativa del consumo, monetaristi localisti o popolari [10], ecologisti di varia impostazione, pacifisti, gente che non ha più il lavoro, chi ce l’ha ma non sopporta più dovergli dedicare l’intera esistenza per realizzarsi in una carriera o nell’ossessiva produzione dell’auto alienazione, affamati di tempo umano, chi non ha un posto nella società, chi lo sta perdendo, chi ce l’ha ma non gli piace, chi ha figli, i più giovani, tutti costoro aspettano un progetto politico. Un progetto politico che non riduca i mille mondi dei mille punti di vista ad una ricetta precotta di mondo migliore, che sarà sempre migliore per me ma non per te, mondo migliore che ognuno dovrebbe provare a costruire coinvolgendo la comunità dei propri simili, nel proprio ambito, nel proprio territorio.
Questo progetto comune, semplice e al contempo difficilissimo, ha un nome antico: democrazia (senza più il bisogno di doverla specificare come diretta, popolare, totale, globale. Reale e non mediato potere ai Molti, basta ed avanza), ma richiede ancora tanto lavoro e tanta pazienza per essere riportata nella spazio della reali condizioni, prima di pensabilità, poi di possibilità.
Io credo, noi ci dovremmo far carico di questo progetto, questa dovrebbe diventare la nostra ambizione. L’alternativa è la restituzione del cràtos dall’economico al politico, dalle élite dei Pochi alla comunità dei Molti. L’Alternativa è la democrazia.          


[1] In senso specifico, il demo era una particolare costruzione pluri circoscrizionale ateniese, introdotta nella riforma di Clistene, precedente all’Atene periclea.
[2] Qui si dovrebbe fare una nota molto lunga che non possiamo permetterci. Si tenga comunque conto, che “democrazia” era per lo più, un termine usato in senso spregiativo o almeno ciò risulta dal contenuto numero delle fonti di quei tempi, a noi pervenuteci.
[3] Illich Ivan, Un archeologo della modernità, Milano, Elèuthera Editore
[4] Aristotele, Politica, Roma-Bari, Laterza, nel cui Libro I, Aristotele ci chiarisce quanto poco idoneo allo spirito della comunità, della polis, sia la “cremastica” (arte di arricchirsi e guadagnare denaro).
[5] Di cui alcuni esempi vengono dati in: A. Sen, La democrazia degli altri, Mondadori
[6] Constant, Benjamin, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata; Finley Moses, La democrazia degli antichi e dei moderni, Roma-Bari, Laterza.
[7] “Liberi un solo giorno ogni quattro anni” come ebbe a ironizzare J.J.Rousseau a proposito degli inglesi.
[8] Per questi motivi lascia un po’ interdetti lo sconcerto rumoroso di coloro che sembrano solo oggi rendersi conto che esistono le élite.
[9] Obiettivi immediati, a titolo d’esempio possono essere il ritorno al proporzionale puro, l’istituzione di referendum attivi e forme di iniziativa popolare, i bilanci partecipati, le consultazioni comunali assembleari, la politica e la gestione democratica dei beni comuni, forme sperimentali di Democrazia Diretta Elettronica come si sta sperimentando per la compilazione della nuova carta costituzionale dell’Islanda. Non sono sempre l’optimum dell’ideale democratico, ma possono diventare gradini intermedi da cui la strada da percorrere ci sembrerà meno impossibile.
[10] Il nostro recente dibattito interno ha affrontato di nuovo, di sfuggita e più con nervosismo che con raziocinio (con un notevole contributo polemico, anche dello scrivente e di cui faccio pubblica ammenda) il tema della sovranità monetaria. Ma che sia monetaria o alimentare, militare o giuridica, la sovranità è di nuovo il problema del “chi decide?”. La scelta euro – lira mi lascia indifferente se non stabiliamo prima a chi questi istituti monetari debbono rispondere, a quale sistema decisionale e quindi a quale forma politica. Troverei paradossale fare una battaglia politica con Tremonti per poi consegnare a lui ed al suo principale, il titolo di sovrano, oltretutto dotato di facoltà di stampare denaro in nome e per conto “del popolo”. Altresì, in una vera democrazia, mai nessuno avrebbe delegato ad un pallido professore – funzionario, il cràtos della nazione. Di nuovo, il problema primo è: chi decide ?

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