Italia. Regionali 2019. Un anno critico. Sottogoverno e potere.
Giuseppe Sandro Mela.
2019-03-15.
Sono sei le regioni italiane chiamate a rinnovare nel 2019 i rispettivi governi regionali.
Tutte e sei queste regioni avevano/hanno governatori e giunte uscenti di centrosinistra. Inutile rimarcare il grande potere delle regioni, specialmente in termini di sottogoverno. Si va dalle nomine di presidenti e cda nelle società partecipate, fino a legioni di consulenti che hanno trovato nel pubblico il loro pabulum, l’ubi consistat.
Sono centri di potere spesso poco visibili alla massa, ma che esercitano una potente azione di supporto alle azioni della politica dirigente. Se utilizzati in modo spigliato, possono ‘mettere a posto‘ miriadi di persone fedeli. Decisioni politiche sono fatte prendere da burocrati, funzionari, persone non elette.
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Un anno fa, con il 4 marzo, il partito democratico ha perso il governo nazionale con una débâcle storica.
Quindi, il centrosinistra ha perso le elezioni regionali in Trentino Alto Adige, Abruzzo e Sardegna.
A breve si dovrà confrontare in Basilicata e Piemonte, ed a fine anno in Calabria ed Emilia-Romagna: se perdesse anche queste regioni, cosa possibile, la eventuale ripresa del partito democratico diventerebbe molto, ma molto difficile.
Si consideri anche come verosimilmente il 26 maggio si dovrebbero tenere anche le elezioni amministrative, essendo chiamati al voto oltre diciassette milioni di elettori. Questo sarà un altro test sulla tenuta del centrosinistra, almeno nelle realtà locali.
Questi dati e queste considerazioni dovrebbero dar la stura a molte serie considerazioni, le risultanze delle quale ribaltano i correnti modi di pensare.
– Scopo di una formazione politica è il conseguimento del potere per essere in grado di applicare il programma che si era proposto. Da questo punto di vista nulla da eccepire sulla corsa ai posti di governo, molto da discutere invece sui metodi utilizzati.
– La posizione di potere è però un mezzo, uno strumento: essa diventa utile solo se gestita proficuamente. In caso contrario si ritorce contro chi lo occupa: lo distrugge politicamente.
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Quanto successo un anno fa è semplicemente da manuale.
Il partito democratico si presentava alle elezioni avendo alle spalle un 40.8% di consenso conseguito alle elezioni europee, aveva il governo nazionale e la quasi totalità dei governi regionali: da ciò derivava il dominio assoluto del sottogoverno.
Non solo.
Tutti i media, ivi compresa la radiotelevisione di stato, erano saldamente schierati per il partito democratico.
Stando alle regole riportate in tutti i manuali di politologia, il partito democratico avrebbe dovuto stravincere le elezioni.
Invece ne è uscito con le ossa rotte.
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Non è questo tempo e luogo per rinnovare l’analisi di quella storica débâcle.
Queste considerazioni servono invece a comprendere quanto sia pericoloso confondere i mezzi con i fini.
Se ben diretto, un partito politico esercita spesso un peso maggiore stando alla opposizione che reggendo il governo. In questo, il partito comunista italiano del dopoguerra fu grande maestro, ma aveva leader di alto valore e di grande spessore umano e culturale.
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Questo anno elettorale sarà maieutico per molti.
Molto verosimilmente il partito democratico ne uscirà annientato: si era trasformato in una merchant bank alimentata da governo e sottogoverno, utilizzando i fondi pubblici, ma senza quel potere scompare nel nulla. Ma nel contempo svolgerà un ruolo di grande utilità: ghettizzerà un venti percento dei voti in un recinto senza potere ed influenza. Il partito democratico si sta autoescludendo rinnovando un arco costituzionale a termini inversi. Quindi, salutiamo esultanti i ritorni di ideologia di sinistra e liberal: sono gli insperati strumenti che ergono un muro di incompatibilità con la realtà, e servono anche ad attirare come il miele le mosche tutti i cascami della storia, finché alla fine morte li colga.
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Discorso analogo potrebbe essere fatto per M5S, ma in termini differenti. M5S ha avuto il grandissimo merito di concorrere a disintegrare il partito democratico, sottraendogli larghe quote di Elettorato: è stata una mansione mai sufficientemente lodata e che nessuno dovrebbe mai dimenticare.
Adesso M5S si trova ad un bivio: il grandioso successo elettorale ottenuto il 4 marzo dello scorso anno è stato ottenuto raccogliendo tutta la rabbiosa protesta presente nella penisola, ma la protesta contesta un qualcosa e non ne propone altro che la abrogazione: M5S non è propositivo. Non solo. In lui convivono un’anima statalista, una sinistra armeggiata e che si è sentita tradita dal pd, con un’anima per nulla statalista.
Sarebbe impossibile ripetere il successo elettorale dello scorso anno, e le elezioni intermedie lo attestano, senza che avvenga un chiarimento interno M5S deve prendere una decisione: o restare il partito della contestazione e di “NO”, ma allora stando alla opposizione, oppure diventare propositivo, entrare in un governo, ma perdere una metà circa del suo attuale elettorato. In questo le scelte delle candidature elettorali sarà elemento dirimente: senza disciplina interna un partito conta poco o nulla.
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Il discorso sui media è paramount. Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, il Sole 24 Ore, la Rai, si son fatta fama ben peggiore della Pravda degli anni ottanta. La loro faziosa ottusità menzognera supera ampiamente quella del Völkischer Beobachter, organo di stampa del partito nazionalsocialista. Quei pochi che li leggono lo fanno perché hanno la sicurezza che è vero esattamente l’opposto di ciò che narrano.
Hanno svolto un ruolo di primo piano nel distruggere la figura politica del partito democratico: non si sapeva che lo odiassero fino a tal punto. A questi media Salvini deve gran parte del suo successo elettorale. Adesso speriamo che non cerchino di cambiare: tanto, oramai, nessuno presterebbe più loro attenzione.
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