mercoledì 7 novembre 2012

Dice Socrate

La salute della psiche.
Nel dialogo platonico Alcibiade I, Socrate, conversando con lo stesso Alcibiade, gli fa notare che per essere un buon politico, cioè per fare il bene della città, occorre essere innanzitutto un uomo di valore, cioè fare il bene di se stessi, rendersi migliori, avere per fine la propria realizzazione in quanto uomo.
Per rendere migliori se stessi, dice Socrate, bisogna conoscere se stessi, come recita l’iscrizione posta sul tempio di Delfi.
Pertanto bisogna conoscere in primo luogo la propria anima, cioè il principio stesso della vita.
Il senso del pensiero di Socrate è chiaro.
Averi, onori e potere, in una parola: la ricchezza esteriore, non sono la felicità.
Il bene dell’anima, da intendersi come vita e come psiche inserita in un corpo vivente, è dunque virtù.


A questo proposito, tuttavia, una precisazione si rende necessaria in quanto l’originale senso greco del termine virtù non corrisponde che in poco al senso etico-morale-religioso col quale questo termine si accompagna in genere nel nostro linguaggio.
Abituati come siamo a considerare virtù fede, speranza, carità, dimentichiamo che il concetto greco di virtù, aretè, era ben altro.
Virtù (aretè) significa “capacità”, “valore”, “eccellenza”, quindi sviluppo e realizzazione di facoltà umane.
Per Socrate, dunque, il bene della psiche è la virtù tanto quanto il bene del corpo è la salute.
In altre parole: il bene dell’uomo è la salute fisica e psichica.

In altri dialoghi, come per esempio il Protagora, Socrate afferma che non bisogna gettare via la propria vita, che “bisogna salvarla” per impiegarla nella realizzazione di sè.
Nel Gorgia egli insiste sulla necessità di prendersi cura di se stessi.
Infatti, come il corpo, anche la psiche ha una salute e una malattia.
La salute della psiche è l’aretè, cioè il conseguimento dell’eccellenza, in particolare della giustizia; mentre il suo contrario, cioè la malattia della psiche, la malattia psichica in senso moderno, la nevrosi o persino la psicosi, è causa del peggiore dei vizi, cioè l’ingiustizia.
In questo dialogo Socrate conclude che è meglio subire un’ingiustizia invece che commetterla.
Infatti chi commette ingiustizie rovina la propria anima e perde se stesso.
Se il vizio di commettere ingiustizie è dunque il peggiore dei mali non ci sarebbe dunque contrasto, per Socrate, tra conseguimento dell’utile e conseguimento del bene, nel senso che il vero utile è per Socrate la pace della psiche, dunque, in termini moderni e correnti, il non avere pesi sulla coscienza.

La virtù come sapere.
Secondo Socrate ogni virtù corrisponde ad un sapere, ad una certezza priva di ombre e di dubbi.
E’ scienza.
Non è possibile realizzare l’aretè se non si sa in cosa consiste.
Non si può realizzare il coraggio se non si sa cosa sia, nè essere giusti se non si conosce la giustizia.
In pratica tutte le virtù si riducono ad una: il conseguimento del vero sapere, cioè la conoscenza di cosa è bene per l’uomo.
Questo tipo di sapere non solo è necessario, ma perfino sufficiente a produrre retti comportamenti.
Perciò il vizio è anche originato dall’ignoranza.
La conseguenza di questa impostazione è che l’uomo non fa il male, non commette ingiustizie volontariamente, ma per ignoranza di cosa è bene per lui.
Chi agisce per un fine malvagio è dunque insensato, non sa incontro a quali disgrazie sta andando.
Si tratta, come si vede, di una posizione estrema, super-razionalistica, che pur avendo un fondo di verità perchè in molti casi è davvero così, non tiene conto a sufficienza del fatto che, pur conoscendo che cosa è male per sè, e per gli altri, vi sono (e vi erano ai tempi di Socrate) individui che comunque agiscono in preda all’incontinenza, o anche ad un bisogno insopprimibile, di natura.
Essi sanno bene che è male ciò che stanno facendo, ma sperano di farla franca.
Nessun ladro va a rubare con la certezza di finire in prigione, e nessun assassino uccide con la certezza di finire sulla sedia elettrica.
Ciò non li giustifica; tuttalpiù spiega perchè succedono certe cose, e dimostra che il male non è solo degli ignoranti ma anche di quelli che sanno.
Infatti la stessa fine di Socrate testimonia che vi sono periodi in cui l’ingustizia e la malvagità trionfano, quanto meno esteriormente.
Per capire questa lezione della vita il signor Socrate dovette infine sperimentarla sulla prorpia pelle.

Il sapere come conoscenza del “che cosa è questo?”.
Al fondo della concezione etica di Socrate è quindi già presente la convinzione secondo la quale tutti gli uomini possano agire razionalmente se posti in condizioni di farlo, cioè se educati.
La condizione fondamentale perchè questo avvenga sta tuttavia nella trasmissione non tanto del sapere, ma delmodo in cui si perviene al sapere, cioè facendo domande ed ottenendo in risposta una definizione esaustiva.
Ciò evidenzia che in Socrate vi è già il seme di una teorizzazione della scuola attiva.
La domanda, come è ovvio, consiste nel chiedere per avere una definizione esaustiva “Che cosa è questo?”
Ad esempio: “Che cosa è la giustizia?”
Socrate ritiene sia possibile, dunque, pervenire ad una conoscenza della giustizia, non attraverso casi particolari, esempi di giustizia, ma proprio sapendo che cosa è.
Perchè è solo sapendo che “cosa è”, secondo Socrate, noi possiamo comportarci giustamente.
Questo “che cosa” deve essere infatti identico in ogni uomo giusto e in ogni azione giusta.
Questo carattere, o tratto distintivo, rinvenibile in ogni individuo considerato giusto o in ogni azione valutata come giusta, è in sostanza un’idea, un concetto, un tratto universale.
E’ proprio in questo tipo di domanda, quindi che germina, per così dire, la successiva teoria platonica delle idee.
Ma è in Socrate che l’idea di “idea” come forma suprema di conoscenza comincia a farsi strada.
Senza “idee”, cioè rappresentazioni e definizioni esaustive di “cose” che non sono cose, ma qualità, attributi, valutazioni di comportamenti umani, dunque elementi immateriali dovuti a giudizi, vere e proprie astrazioni, non vi può essere vera conoscenza; questa non può essere trasmessa; quindi non vi può essere vera educazione o formazione.
Quasi tutti i dialoghi giovanili di Platone contengono questa ricerca.
Nel Carmide si chiede cosa sia la temperanza, nel Lachete si vuole sapere cos’è il coraggio, nel Liside si vuole definire l’amicizi, nell’Ippia Maggiore si prova a definire la bellezza, nell’Eutifrone la domanda verte sulla santità e, sopratutto, nel primo libro della Repubblica, la domanda verte sulla definizione di giustizia.
In questi testi appare chiaro che se l’interesse di Socrate ha per oggetto la moralità, l’approccio è però teorico e conoscitivo, cioè volto a conseguire una teoria, un principio di scienza delle qualità morali.
Siamo cioè di fronte, nella ricerca, ad un procedimento induttivo, per il quale risalendo dall’esame di molti casi particolari di uomini e comportamenti, si rinvengono quei tratti comuni che consentono di dire che in generale vi è sempre presente questa caratteristica, e questa, dunque, in quanto tale, è la universalità cercata, per esempio il carattere dell’amicizia, o del coraggio, o della giustizia.
Ciò che tuttavia viene in evidenza è che nei primi dialoghi platonici la ricerca non ha una conclusione positiva.
Negato che la giustizia o la santità siano un caso particolare e concreto di giustizia o di santità, perchè è a causa di un uomo giusto o di un governo giusto o di leggi giuste che si può parlare di giustizia, rimaniamo con il desiderio di sapere, ma la conoscenza della risposta non la possediamo.
Ora la critica filosofica inclina con il dire che Socrate arrivò fin qui, e che questo era appunto il suo metodo, nient’altro che una tattica per incrinare il falso sapere, la sapienza superficiale e libresca degli eruditi, smascherando così l’inconsistenza dei sofisti e dei retori, lasciando, infine, agli interlocutori il compito di arrivare alle conclusioni.
Sarà dunque Platone a decidere, a dare un’intonazione positiva e costruttiva a questo metodo, cioè cominciando a dare delle risposte.

Il metodo socratico.
La condizione perchè il metodo socratico possa concretizzarsi è una situazione di dialogo nel quale i partecipanti siano disposti ad esaminare insieme un dato problema, sia a farsi esaminare dallo stesso Socrate.
Si tratta già, come si vede, di una situazione ideale, che non sempre può verificarsi nella vita e che nemmeno può sempre veder presenti persone disposte a dialogare.
Se la dialettica è dunque prima ancora che un metodo, una condizione, il vero metodo consiste in un approccio ironico, cioè in una candida confessione di ignoranza da parte di Socrate, il quale dice di “saper solo di non sapere”.
Dicendosi sapiente della propria ignoranza egli smaschera, per così dire, la presunzione altrui, la presunta sapienza che gonfia i petti e rende arroganti.
Tuttavia, in realtà, la confutazione socratica non è diretta solo contro la presunzione intellettuale dei retori e dei dotti, ma anche contro l’ignoranza vera e propria, l’ignoranza che l’uomo ha di se stesso e delle cose che hanno realmente un valore nella vita.
Pertanto non si limita solo a far crollare certezze intellettuali infondate, ma anche valori morali, o per meglio dire, immorali.
Dice di Socrate, ad esempio, un personaggio, Nicia, nel dialogo Lachete:

Non mi sembra che tu sappia che chi si trovi a ragionar con Socrate, come capita, ed entri in conversazione con lui, qualsiasi sia il soggetto della discussione, è trascinato torno torno ed è forzato a continuare finchè non casca a render conto di sè, del modo in cui ha trascorso la sua vita; e una volta che c’è cascato, Socrate non lo lascia prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte.
(Platone, Lachete, 1879>.

Se il primo passo è distruttivo il secondo è rigenerativo.
Infatti Sorate afferma di se stesso di essere come sua madre, che era una levatrice.
Non faceva figli, ma aiutava le donne a partorire.
Così ecco il procedimento maieutico, ovvero l’arte di aiutare gli altri a far nascere le giuste idee intorno a se stessi ed il mondo.
Nel Teeteto, altro dialogo platonico, ecco come Socrate presenta il proprio metodo:

Vedi di intendere bene cos’è questo mestiere della levatrice e capirari più facilmente cosa voglio dire…..Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente assomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi.
E la più grande capacità sua è che io riesco, per essa, a discernere sicuramente se la psiche del giovane partorisce fantasma e menzogna oppure cosa reale e vitale.
Poichè questo ho in comune con le levatrici, che anch’io sono sterile di…..sapienza; ed il biasimo che già altri mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non manifesto mai io stesso il mio pensiero su alcuna questione, ignorante come sono, è verissimo biasimo.
E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare.
(Platone, Teeteto, 149, 150).

In conclusione potremmo dire, dunque, che Socrate diede un contributo fondamentale allo sviluppo della filosofia, e non solo dello sviluppo di un’etica e di una moralità fondati su presupposti razionali anzichè sul semplice timore delle punizioni.
Ma tale contributo, in sostanza, fu anche l’espressione del suo limite, perchè una vera razionalità, come dimostrerà più tardi Aristotele, non può limitarsi a comprendere la razionalità altrui, o a risvegliarla, ma deve saper cogliere anche l’irrazionalità, cioè la vera motivazione dell’agire umano e riconoscere che, anche in presenza di un discorso razionale, a volte non possiamo proprio fare a meno di seguire l’estro, cogliere l’attimo ed inseguire chimere od illusioni.

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