vecchio * articolo che è sempre attuale.
DI MAURIZIO BLONDET
effedieffe.com
Un piccolissimo imprenditore si dà fuoco davanti a una sede dell’Agenzia
delle Entrate. Una cinquantina di piccoli imprenditori si sono già
tolti la vita, schiacciati dalla triplice ganascia delle banche che non
fanno credito, della recessione, dei clienti (o dello Stato) che non
pagano, e dell’esazione fiscale.
«Contiamo di fare ancor meglio nel 2012»,
dichiara Attilio Befera, il capitesta di Equitalia (450 mila euro
annui), nel comunicare i trionfi della sua torchia: 12,7 miliardi di
euro incassati l’anno scorso, con un aumento del 15,5% rispetto all’anno
prima.
Sono anni che gli introiti tributari aumentano del 10-15%
annuo – senza che l’economia aumenti affatto. Significa che si taglia
nella carne di un Paese che la torchia immiserisce e devasta.
Ma, dice Befera, «L’Agenzia è complessivamente cresciuta in
tutti i settori... Un risultato raggiunto grazie alla professionalità
dei nostri dipendenti e alle strategie adottate che hanno puntato sempre
più ad una maggiore efficacia ed efficienza».
L’efficienza di cui si vanta Befera è quella che ha fatto crollare
l’impero romano. Lo illustrò l’oratore ed apologista Lattanzio (240–320
dopo Cristo), africano. L’imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al
305, spiega Lattanzio, aveva messo in atto una riforma fiscale così
efficiente, riorganizzando gli uffici in modo così perfetto, che le
tasse venivano prelevate molto meglio di prima. Tanto bene, che i
contadini, per la «enormitas indictionum», ossia per il «peso enorme
delle tasse», fuggivano di casa per non farsi trovare dagli esattori, «e
i campi tornavano a inselvatichirsi».
Nella sua provincia, l’Africa (che comprendeva il territorio di Tunisia e
Algeria), Lattanzio aveva visto strade, villaggi e campagne resi
insicuri dall’infuriare dei circumcelliones, lavoratori stagionali –
precarii, si direbbe oggi – rovinati dalle tasse e dalla crisi. Abituati
a muoversi in gruppi organizzati, percorrevano la provincia prima
mendicando e poi taglieggiando, strappando i ricchi dalle loro carrozze e
trucidandoli nelle loro ville, ammazzando preti e bruciando chiese
(erano donatisti, piissimi, ammazzavano al grido «Deo laudes»).
Sant’Agostino, vescovo di Ippona, africano, li definisce banditi e pazzi
furiosi «perditorum hominum dementissimi greges» che «vagano per la
campagna senza partecipare al lavoro dei campi e disturbano il sonno
degli innocenti» che «per mangiare si aggirano attorno ai granai». Da
ciò – spiega Agostino – il nome di circumcelliones. Ma loro si
definivano Agonisticis, lottatori di Cristo e per la giustizia sociale.
Lattanzio, giunto a Treviri come istitutore del figlio dell’imperatore
Costantino, poté constatare che la Gallia era ridotta al disastro da un
simile fenomeno sociale: qui erano i «bagaudi» (qualcosa che nel
dialetto celtico significava «ribelli autonomisti»), bande ben
organizzate di disertori e contadini-evasori fiscali per necessità, che
funestavano le campagne spinti dalla fame e dalla disperazione, ma anche
da sete di giustizia sociale. Dovunque poterono costituire centri
autonomi, eliminarono il latifondo e la schiavitù.
In Egitto – granaio di Roma e proprietà dell’imperatore, quindi più
tartassato di tutte le altre provincie – la spoliazione messa in atto
dalla macchina fiscale è ben illustrata dal caso di Sant’Antonio del
deserto, il copto Abba Antonio. Antonio ereditò dai genitori 300 arurae
di fertili di campi (circa 80 ettari), contro le 40 arurae medie di un
fellah egiziano di allora. Era dunque un fellah benestante. O lo sarebbe
stato, senza l’efficienza spietata del fisco. Per il pagamento delle
tasse, (in sacchi di granaglie), era stato inventato il «sostituto
d’imposta»: nel senso che dopo aver fissato una quantità di grano per
ogni villaggio egiziano, i funzionari imperiali sceglievano due o tre
dei più ricchi del Paese, e li rendevano responsabili del pagamento
della tassa da parte della intera comunità: ne rispondevano con il loro
patrimonio privato. In tal modo, i designati, per non ridursi essi
stessi all’insolvenza, si dovevano fare aguzzini dei loro vicini di
casa, estraendo l’ultimo sacco di grano ai contadini più poveri, che già
vivevano ai limiti della sussistenza.
Antonio si trovò sicuramente, data la sua ragguardevole proprietà nella
condizione di esattore-sostituto, o «curiale», come erano ufficialmente
definiti questi malcapitati, che si facevano odiare dai membri del
villaggio. Così non è strano che – lui analfabeta – ascoltò da un
predicatore cristiano la frase di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’
vendi quello che possiedi e dallo ai poveri», ebbe l’illuminazione:
fuggire al fisco diventava possibile! Bastava non aver più reddito
alcuno. E allontanarsi, per prudenza, dove la macchina esattoriale aveva
difficoltà a reperire i contribuenti: nel deserto. Il suo biografo
(Sant’Atanasio vescovo) attesta che Antonio immediatamente «regalò il
suo terreno ai vicini». Il particolare è di cruciale importanza: Antonio
non poté «vendere» la sua terra per dare il ricavato ai poveri, dovette
«regalarla», perché nessuno la voleva essendo legato a quella proprietà
il dubbio privilegio di farsi torchiare a sangue, e diventare aguzzino
dei compaesani. Oppure, perché i vicini non gli avrebbero consentito di
andarsene nel deserto, se prima non dava loro il cespite e i raccolti
con cui placare i funzionari romani.
Fatto sta che, una volta constatato che nel deserto (ossia probabilmente
dietro casa, essendo in Egitto) Antonio riusciva a sopravvivere,
attesta Atanasio, «molti uomini facoltosi seguirono Antonio nella fuga
(e nell’evasione) del deserto, «per scaricarvi i pesi di questa vita».
Nacque così il monachesimo. Gli anacoreti diventarono sempre più
numerosi attorno alla caverna di Antonio Abate (Abba, in copto), fino
quasi a formare una città di anacoreti. Vivendo in estrema frugalità
(due pani di segale al giorno, qualche volta fave e lattuga) ma –
Atanasio lo sottolinea esplicitamente – «lì nessuno veniva tormentato
dall’esattore delle tasse».
Il monachesimo fu un successo travolgente. Migliaia di egiziani, non
solo contadini ma soldati (per lo più giovani copti arruolati a forza in
retate e gettati a combattere barbari biondi nel gelido Nord) avevano
trovato il modo migliore per salvarsi dal demonio e dai Befera del
tempo: salvarsi l’anima rinunciando a consumare e praticando l’ascesi, e
cessando di produrre ricchezza; niente produzione, niente tassazione.
All’impero che aveva voluto (dovuto) tassare troppo, cominciarono a
mancare i contribuenti e anche i soldati, che dopo che il cristianesimo
era stato riconosciuto dallo Stato (l’editto di Costantino) avevano un
modo legale di sottrarsi alla leva, facendosi monaci. Si arrivò al punto
che l’imperatore Valente, nel 375, mandò i suoi legionari nel deserto
di Nitria a rastrellare sistematicamente gli eremiti nei loro
affollatissimi romitaggi. Furono presi e portati in carcere, oppure
«stanati dai loro nascondigli» e obbligati a tornare a casa «perché
adempissero il loro dovere nella comunità d’origine», narra San
Gerolamo: ossia la funzione di sostituti d’imposta. Molti si rifiutarono
di tornare a casa, e furono uccisi a bastonate. Valente, nel suo gergo
militaresco, li aveva bollati come «ignaviae sectatores», che significa
«banda di lavativi», ma anche «volontariamente inattivi, improduttivi».
Oppure renitenti alla leva e al fisco «sub specie religionis», con la
scusa della religione.
Ma ormai l’efficiente fiscalità romana aveva raggiunto il punto, in cui
non valeva più la pena affannarsi a produrre nulla. Questo punto è stato
raggiunto in Italia. Che faccia nascere santi eremiti come Antonio del
Deserto, pare improbabile data la mentalità corrente. Ma almeno,
circumcelliones e bagaudi, sarebbe ora.
Maurizio Blondet
Fonte: http://www.effedieffe.com
*30.03.2012
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